alessandro barbera
marco bresolin
«Chi agita lo spauracchio del ritorno alle vecchie regole del Patto non ci spaventa: se devo accettare una soluzione che va contro gli interessi dell’Italia, allora meglio tenere i vecchi vincoli». Giancarlo Giorgetti, tornato a Roma insoddisfatto dei negoziati all’Ecofin di Bruxelles, ora scava la trincea. La ritrovata intesa sull’asse Berlino-Parigi e il possibile compromesso sulle nuove regole di bilancio hanno accentuato il suo malumore, secondo alcuni sfociato in un silenzio rabbioso. Chi ieri a Bruxelles ha assistito al dibattito a porte chiuse con gli altri ministri assicura che l’italiano non avrebbe utilizzato simili argomenti con i colleghi. «Io non ho sentito nessuno usare questi toni», commenta con un filo di irritazione la collega spagnola Nadia Calviño, presidente di turno dell’Ecofin e regista del possibile accordo che prevede per i Paesi ad alto debito uno schema meno penalizzante di quello fin qui immaginato.
Per Giorgetti la proposta non cambia lo scenario. L’aggiustamento di bilancio necessario a rispettare le nuove regole sarebbe pressoché doppio rispetto agli sforzi che a suo avviso il governo è in grado di rispettare. Con una possibile recessione alle porte (Mario Draghi dixit) il ministro è convinto sia necessaria una maggiore gradualità, non dissimile da quella impostata nell’ultima nota di aggiornamento dei conti. La regola che si è imposto Giorgetti si può sintetizzare così: l’Italia non prenderà impegni che sa di non poter mantenere, anche perché l’esporrebbe alla censura dei mercati, già in tensione per via degli alti tassi di interesse e di rendimenti dei titoli pubblici cresciuti come non accadeva da più di un decennio.
Il passaggio della nuova proposta che ha fatto scattare l’allarme della diplomazia italiana non è tanto il parametro minimo per la riduzione annuale del debito, vero totem di Berlino: se contenuto e sostenibile, Giorgetti si è detto disposto ad accettarlo. Né per lui costituisce un problema l’offerta al ribasso che gli spagnoli hanno proposto sullo scorporo degli investimenti pubblici. A provocare il no italiano alla bozza è quella che a Bruxelles hanno definito la «salvaguardia per la resilienza del deficit».
Proviamo a spiegare in maniera comprensibile il perché: il nuovo paragrafo del complicatissimo accordo prevede che quando uno Stato avrà portato il suo debito su una traiettoria discendente, «dovrebbe garantire un margine di sicurezza comune sotto la soglia del tre per cento». Non è ancora chiaro quanto ampio sarà questo margine, ma per il governo italiano si tratta di un parametro che aggiunge in ogni caso un ulteriore onere oltre a quello del taglio del debito. Anche i vertici della Commissione europea non sono entusiasti, perché ritengono che la soglia del tre per cento prevista dai vecchi trattati sia di per sé sufficiente: aggiungerne un’altra sarebbe un controsenso. E però per Berlino è diventato un altro totem irrinunciabile da dare in pasto all’opinione pubblica tedesca, poco incline a digerire concessioni al rigore.
Sul capitolo investimenti Giorgetti sembra rassegnato al fatto che non ci sono margini per ottenere una «golden rule», nemmeno limitata, per scorporare compiutamente gli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dal calcolo delle spese. L’ultima offerta della presidenza spagnola prevede di ottenere l’estensione dei piani di aggiustamento da quattro a sette anni in cambio della piena attuazione del Recovery plan. Inoltre consente in via transitoria di usare le spese del Pnrr nel 2025, nel 2026, e il cofinanziamento dei fondi europei per derogare dalla clausola di «non differibilità». Detta in sintesi, l’Italia avrebbe la possibilità di rinviare il rigore di bilancio negli ultimi anni del percorso di aggiustamento invece che distribuirli lungo tutto il periodo, fra i quattro e i sette anni. La bozza prevede infine la possibilità di utilizzare le spese per la Difesa come «fattore rilevante» per evitare una procedura di infrazione. Nessuna di queste concessioni è stata sufficiente a convincere il ministro, che non ha potuto contare nemmeno sulla sponda degli altri Paesi mediterranei.
Se il risultato fosse questo, meglio dunque tornare alle vecchie regole e alle concessioni che l’Italia ha negoziato anno per anno. Si tratta in fondo di una posizione che in chiave interna rafforza politicamente Giorgetti: in molti nella maggioranza e nel suo partito teorizzano il principio del male minore. Qualche settimana fa l’aveva detto esplicitamente l’eurodeputato (e fra i leader dell’ala dura del Carroccio) Antonio Maria Rinaldi: «Io preferirei un nuovo Patto, ma visto che quello vecchio non è stato applicato, si continui a non applicarlo». Agli occhi degli elettori antieuropeisti è la quadratura del cerchio: meglio un governo isolato che complice di un accordo che lo costringerebbe ad una nuova austerità.