Professor Slater, facciamo un gioco. Supponiamo che un giorno nel suo studio arrivi una persona di mezza età e le esponga, con aria perplessa, la seguente situazione: «Non dormo bene, forse sogno ma non me lo ricordo. Sono costantemente impegnato a fare più cose, senza concentrarmi davvero su nessuna. Sono schiavo di ogni mail, notifica o messaggio che arrivi sul cellulare. Sento che la mia memoria sta diminuendo, insieme alla vista. Mi distraggo di continuo, come se la mia attenzione non riuscisse a focalizzarsi per più di qualche secondo. Vivo in ansia per la situazione internazionale e per la salute del pianeta. Non vedo una via d’uscita. Non trovo tempo per me stesso e, quando finalmente lo trovo, non riesco a viverlo. Non provo piacere davanti a un tramonto, ascoltando Bach o ammirando un Caravaggio: la mia mente salta continuamente da un pensiero all’altro. Fatico a progettare qualcosa che vada oltre la giornata. Il futuro non solo non riesco a immaginarlo, ma ho la sensazione che non esista più: è stato sostituito da un eterno, ansiogeno presente».

 

 

Glen Slater ascolta con attenzione dallo schermo, dall’altra parte del mondo. Insegna al Pacifica Graduate Institute di Santa Barbara, erede della migliore tradizione libertaria e anticonformista californiana, dove — tra gli altri — hanno lasciato i loro archivi Joseph Campbell e James Hillman. Psicologo analitico, il suo libro più recente si intitola Jung vs Borg (Jung contro il cyborg): una disamina lucida del modo in cui l’umano sta scivolando verso un ibrido tra chatbot e macchina, e un tentativo di resistenza attraverso l’eredità del grande maestro svizzero, nato centocinquant’anni fa, il 26 luglio 1875. I sintomi appena descritti li conosce bene, perché delineano l’identikit dell’individuo collettivo che, in parte, tutti oggi condividiamo. E così accetta il gioco, e inizia la “seduta”: «Cercherei di aiutare questa persona a capire che la mente ha una sua ecologia, proprio come il mondo. Il primo passo è rendersi conto che la mente, come il corpo, è un sistema che si autoregola. Se ti comporti in modo unilaterale, generi squilibrio e malattia. Immagina, gli direi, che la mente sia come un giardino, di cui occorre prendersi cura».

 

 

E i sogni? Non è questo il primo passo di ogni terapia junghiana?

«Oggi il rapporto con il mondo onirico è particolarmente compromesso, perché la prima cosa che le persone fanno appena sveglie è guardare il telefono. Non si concedono nemmeno un minuto per chiedersi: “Cosa ho sognato stanotte? Di che umore sono?”. Invece bisogna coltivare questi spazi liminali, questi momenti intermedi. Cambiando queste abitudini si crea lo spazio per un tipo di consapevolezza che conserva la memoria del sogno. E si inizia semplicemente prendendosi il tempo per scriverli. Non credo sia necessario essere junghiani o interpretarli, ma solo essere capaci di dire alla propria psiche: “Ti sto ascoltando”. E darsi tempo».

 

 

Già, il tempo. Una recente ricerca rileva che la nostra capacità di attenzione si è ridotta a otto secondi.

«Le persone guardano i loro smartphone e hanno un bisogno continuo di stimoli. Molti studi dimostrano che la mente — e persino il cervello — si sta adattando a questo ritmo. Il problema è che, immersi in questa modalità di velocità e comprensione superficiale, perdiamo profondità. La capacità di riflessione si spegne, perché per riflettere e mettere ordine nelle cose bisogna fermarsi. Bisogna fare una pausa, invece di saltare da un’attività all’altra».

Ma come lei certamente sa, c’è una lotta per la nostra attenzione. Centinaia di stimoli indotti si contendono con ogni mezzo il mercato dei 1340 secondi della nostra giornata.

«Già negli anni Sessanta Herbert Simon denunciava questa tendenza. Ciò che interessa alle aziende non è più semplicemente il nostro tempo, ma le nostre menti. Sono la grande merce della nostra epoca, e ancora non ne siamo consapevoli. Abbiamo accettato la mercificazione del mondo, della terra, delle risorse. Ora, nell’era post-industriale, la nuova merce siamo noi stessi — in particolare, la nostra coscienza e le nostre informazioni personali».

 

 

È in questo modo inconsapevole che stiamo diventando, per citare il suo libro, cyborg?

«Sì, stiamo andando verso la fusione con i nostri dispositivi, prima di tutto perché sono i nostri compagni costanti. Se una persona esce di casa e dimentica il telefono, è come se avesse lasciato la mano destra. Per questo l’idea di portare Internet direttamente nel cervello, combinata alla convinzione che l’intelligenza artificiale sia pari o superiore all’intelligenza umana, ci fa pensare che il prossimo stadio dell’evoluzione sia la fusione tra noi e le macchine».

A proposito di intelligenza artificiale: il “Financial Times” ha definito questa tecnologia «una scoperta d’importanza pari al fuoco». Ma noi di solito pensiamo alle trasformazioni economiche, sociali e politiche. Che cosa succederà alle relazioni, ai sentimenti, al nostro cervello?

«Siamo a un punto di svolta. Dobbiamo capire quale sarà il nostro rapporto con questa tecnologia, e fino a che punto esternalizzeremo il pensiero all’intelligenza artificiale. D’altra parte, non sono certo che “scoperta” sia il termine giusto: si tratta piuttosto di un’evoluzione della potenza computazionale. Abbiamo aggiunto interfacce vocali fluide, chatbot, e questo ci dà l’impressione di interagire con una presenza altra. Ma è solo la potenza del calcolo e la sua capacità di raccogliere informazioni in modo rapidissimo».

 

 

Non la preoccupa l’IA?

«La vera domanda è: la mente umana si atrofizzerà oppure riconosceremo l’unicità della nostra intelligenza? Per me, questo è il bivio. Forse rappresenta un’opportunità per diventare consapevoli della complessità dell’intelligenza umana. O, al contrario, finiremo per consegnare la nostra mente al mondo delle macchine».

Sta guardando dritto in quella che Jung chiamava “ombra”.

«Considero anche le possibilità più pessimistiche, perché credo che se non guardiamo direttamente in quella direzione, non stiamo prendendo sul serio il momento che stiamo vivendo. La strada, come dice Jung, passa sempre attraverso l’ombra».

Jung nasceva 150 anni fa. Pensa che sia ancora possibile leggere il mondo attraverso quel modello?

«Sì, assolutamente. Il grande contributo di Jung è stato mostrarci che la psiche è strutturata secondo modelli archetipici. Potremmo dire che Freud ha scoperto la dinamica di base tra conscio e inconscio, e il principio della rimozione. Ma Jung ha colto che ciò che abbiamo rimosso nella modernità sono gli dèi stessi. Abbiamo rimosso principi archetipici, valori, forze simboliche. Viviamo in un mito in cui crediamo di essere noi gli dèi, capaci di controllare la natura, invece di entrare in relazione con lei».

 

 

Non le chiederò cosa sta accadendo negli Stati Uniti di Trump. Le chiedo: cosa sta accadendo al mondo? Quali archetipi agiscono oggi?

«Me ne vengono in mente due, rimanendo nell’immaginario greco. Seguendo Hillman — che in Italia conoscete bene — credo che gli dèi non appaiano mai da soli. In questo momento vediamo all’opera Hermes, il dio della comunicazione, che governa Internet. La polarizzazione e la disinformazione sono i sintomi del nostro adattamento al mondo digitale. E, purtroppo, ciò che abbiamo imparato è che chi è disposto a mentire e ha la voce più forte arriva in cima. Sul web, ha un’influenza sproporzionata. E qui entra in scena il secondo archetipo: il trickster, il buffone, il folle».

E così abbiamo tirato in ballo anche Trump. Tornando alla rete, in teoria dovremmo essere tutti connessi. Ma la connessione psicologica è un’altra cosa.

«Hillman osservava che Hermes è un comunicatore senza giudizi di valore. Crea connessioni, ma non riflette sul loro significato. Oggi abbiamo un sistema comunicativo orizzontale, dove tutti possono accedere a tutto, ma manchiamo di capacità di discernimento. Ci manca un asse verticale: non sappiamo distinguere ciò che è prezioso, significativo, vero. Abbiamo una caricatura: Hermes senza ermeneutica. E ci manca la coscienza di Hestia, la capacità di restare fermi e riflettere».

 

Cos’altro manca a questa falsa connessione?

«In mezzo a questa configurazione archetipica, diceva Jung, esiste una funzione che potremmo chiamare religiosa di cui l’anima ha bisogno: un principio spirituale, una fonte di significato. Se non lo coltiviamo consapevolmente, ritorna in forma inconscia e sintomatica. Oggi, per molti, denaro, tecnologia e scienza sono diventati le vere religioni. Ma, ovviamente, non nutrono l’anima».

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