Bellingcat’s Bi-Weekly Newsletter
28 Agosto 2023Pd, Bonaccini marca Schlein e nomina i capigruppo “ombra”
28 Agosto 2023Anteprima Esce domani il nuovo libro dello storico, edito da Rizzoli. Una riflessione sull’eredità difficile del Novecento
di Massimo Franco
Paolo Mieli: troppa fiducia nella superiorità della democrazia sui regimi autoritari
Definire quello archiviato ventitré anni fa come Il secolo autoritario non significa fissare uno spartiacque tra democrazie e autocrazie: come se dopo il Novecento la storia avesse prodotto sistemi politici migliori, comunque diversi e avulsi dalle dinamiche di quella stagione di stragi e dittature. Leggendo il saggio scritto per Rizzoli da Paolo Mieli si ha un’impressione opposta, che spiazza e trasmette inquietudine. Il secolo autoritario è, nella sua analisi, un periodo più lungo e più pervasivo, che proietta le sue ombre anche sul presente. Lo condiziona, e non permette letture semplicistiche né cesure nette.
L’autoritarismo diventa una sorta di compagno di strada inseparabile dell’umanità e delle élites. E le sue tossine resistenti a ogni antidoto si infiltrano nelle società di tutto il mondo. Un Occidente che le ha nutrite, combattute e insieme subìte nel secolo scorso, adesso le vede riaffiorare sotto forma di intolleranza e di razzismo al suo interno. E deve prendere atto di come si stiano scatenando a Est, nell’aggressione russa all’Ucraina; anche se Vladimir Putin usa il linguaggio dei «buoni» della Seconda guerra mondiale, e cioè la lotta al nazismo, per legittimare l’invasione di un Paese ansioso soltanto di emanciparsi da Mosca e diventare più europeo; in sintesi, di uscire dal proprio «secolo autoritario».
Il sottotitolo che spiega Perché i buoni non vincono mai somiglia a un’iperbole. Ma va accolto come una sorta di segnale d’allarme, un invito a non dare nulla per acquisito per sempre; a guardare dentro i «buchi neri» della storia, senza assecondarne visioni edulcorate dall’ideologia o dalla Realpolitik. Perché altrimenti la storia, quella non scritta, nascosta, non approfondita, si vendica. E ripropone le dinamiche e le spirali del «secolo autoritario» adattandole al presente. Le offre con altre prospettive, in apparenza più rassicuranti, e con personaggi e regimi dei quali non si sono volute vedere né le contraddizioni né i metodi: si tratti di Russia o di Cina.
Nell’involuzione alla quale assistiamo in Asia, nel Medio Oriente dell’estremismo islamico, e nel conflitto ucraino, Mieli individua le conseguenze di una pacificazione che l’Occidente del secolo scorso ha frainteso: sopravvalutando le proprie capacità militari, tecnologiche e perfino culturali; e mostrando un colpevole difetto di comprensione della mentalità di nazioni autoritarie che vedevano e vedono l’Occidente non vincente, ma in declino. È questo miope complesso di superiorità occidentale a essere rivelato e messo a nudo da un aumento, non da una regressione dei sistemi autoritari nel mondo.
Nell’analisi accurata e a tratti spietata delle vicende della Seconda guerra mondiale non c’è solo la sconfitta del nazismo hitleriano e dei fascismi. C’è anche il patto sciagurato tra nazismo e comunismo sovietico, all’insegna di una comune avversione alle democrazie europee: patto che l’aggressione tedesca all’Urss ha fatto dimenticare, insieme con le ciniche complicità che quell’accordo impose dovunque. La sensazione è che la stessa apertura statunitense alla Cina nel 1972, con l’incontro storico del 21 febbraio a Pechino tra il presidente Usa Richard Nixon e Mao Zedong, pronubo l’allora consigliere per la sicurezza Henry Kissinger, sia avvenuto nella scia di un malinteso reciproco.
Gli Stati Uniti pensarono che fosse un atto di sottomissione al primato del capitalismo e della democrazia a stelle e strisce; e l’inizio di una metamorfosi in senso liberale del comunismo cinese. Pechino pensava esattamente il contrario. E cinquant’anni dopo le due maggiori potenze mondiali sembrano avviate a un conflitto sempre meno strisciante. Ma forse, il lascito del «secolo autoritario», più doloroso nella sua inumanità, è nella trasformazione stessa del concetto di guerra; nella sua tendenza e volontà di non distinguere più tra eserciti e popolazioni, tra militari e civili. Il confine tra vittime inermi e soldati è stato superato e sbriciolato da tempo.
Il segno dei totalitarismi
Non bisogna dimenticare il patto sciagurato tra nazismo e comunismo sovietico, all’insegna di una comune avversione alle democrazie europee
Si tratta di un’eredità gonfia di cinismo: una metamorfosi che Mieli fa risalire alla Conferenza di Losanna del 1923. In quell’occasione si legittimò l’inizio della deportazione di milioni di persone, sradicate dalle loro terre in nome di una pacificazione discutibile e aleatoria. Il fenomeno è stato replicato e quasi reso «normale» con l’annientamento delle comunità tedesche nell’Europa centro-orientale dopo il 1945; con le deportazioni in Urss delle comunità considerate nemiche da Stalin; con le operazioni di «pulizia etnica» nei Balcani. Quanto vediamo oggi è il prolungamento inaspettato di quelle tragedie. Ma con un paradosso storico ancora più beffardo.
È la convinzione, ma a questo punto sarebbe meglio dire l’illusione, che la sconfitta del comunismo tra il 1989 e il 1991 avrebbe prodotto un’espansione e un consolidamento della liberaldemocrazia come «sistema globale» e quasi inarrestabile. Invece, è stato quello che il libro definisce «il grande abbaglio». A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, «i regimi autoritari hanno preso di nuovo il sopravvento». E pazienza se quanto avviene in Ucraina o in Cina dovrebbe indurre molti, almeno in Occidente, a capire che tra democrazie e autocrazie sono comunque preferibili le prime.
Il problema in più che vivono Europa e Usa è di essere nemiche e insieme vittime di proprie pulsioni autoritarie: si tratti della cancel culture che nega la storia abbattendo monumenti pensando così di «punire» il presunto schiavismo di Cristoforo Colombo o il supposto razzismo degli antichi Romani, con le propaggini contemporanee; o dell’intrinseco autoritarismo di un «pensiero unico» che finisce per scomunicare qualunque vero dialogo. In una conferenza tenuta alla biennale di Guadalajara nel maggio del 2023, Mario Vargas Llosa ha additato la «cultura della cancellazione» come emblema di quella tendenza all’«abolizione del passato» che riproduce falsità e alla fine crea conflitti.
La tesi di fondo del libro, filtrata attraverso un’aneddotica ricchissima, che spazia dai tribuni della plebe dell’antica Roma alla rivolta contro il colera del 1837 a Napoli, dagli schiavi africani alla corte dei Papi alla Ostpolitik vaticana di compromesso col comunismo sovietico, è che le tracce regressive lasciate dal passato vanno individuate e analizzate, inserendole nel loro contesto storico e non in uno spazio atemporale.
Attenuare l’iperbole dei «buoni che non vincono mai» significa cogliere le premesse di un’involuzione anche quando non si vorrebbe, per viltà o calcolo. L’antidoto al lunghissimo «secolo autoritario» nasce dalla capacità di non dare mai per scontata o irreversibile la democrazia.