Nel dubbio, restare immobili. Mai si dovesse scontentare qualcuno. Evitare le rogne come la peste, appunto: son cose brutte. Se qualcuno fa un gesto contromano, se muove le acque ferme: zittirlo, eliminarlo dal campo visivo. Fare un po’ di retorica, questo sempre.
Per esempio le malattie gravissime, invalidanti e potenzialmente mortali, che si fa? L’elogio del guerriero, naturalmente. L’applauso convinto a chi invece di stare a letto con le flebo a lamentarsi del dolore lo sconfigge, il dolore, si alza in piedi, fa un bel sorriso, esce. Bravissima, bravissimo. Perché lo sanno tutti, no?, che quella contro la malattia è una battaglia e se non guarisci è perché non hai combattuto abbastanza, non sei stato coraggioso, ti sei arreso. Lo sanno tutti che quelli valorosi guariscono, quelli scarsi muoiono. Non è forse così? Diserti il campo di battaglia, colpevole di codardia, allora è ovvio che muori. Oppure polemica, se non retorica si può sempre fare polemica: contro quello che romanticizza il dolore, contro quello che lo strumentalizza per essere compatito e tornare in auge. Il Papa, le cui raccomandazioni giungono regolari via tv accolte dal pubblico dei fedeli con gratitudine, deve essere dunque in armi, in questi giorni di ricovero ospedaliero: lì a combattere, asciutto e non romantico, come si deve.
Pazienza se fosse solo la patria canora, questo scenario.
Invece no, è la patria tutta. E’ tutta l’Italia, tutta l’Italia, come nel jingle. Prendete il Parlamento, prendete le Regioni, la Corte Costituzionale, l’opinione pubblica, prendete la legge sul fine vita. E’ successo, in questi giorni in cui eravamo distratti fino all’una di notte a sentire canzoni (e a parlare di Alzheimer, di depressione di cancro come se fossero testi di canzoni) che la Regione Toscana abbia approvato una legge sul fine vita. Cioè una legge sulla libertà di decidere del proprio corpo e del proprio destino, una legge sul libero arbitrio. In parole semplici: se hai una malattia gravissima, dolorosa e irreversibile, se non c’è nessuna speranza che tu possa guarire allora hai il diritto di scegliere. Se continuare a vivere in quelle condizioni, o se no. Scegliere significa che ciascuno decide, non che tutti devono. Chi è contrario non lo farà.
Chi invece vuole può farlo. Poi: la vita si incarica di disordinare i programmi, come sempre. Mi raccontava Lisetta Carmi che suo fratello Eugenio, il grande pittore, aveva deciso di andare in Svizzera “a prendere il veleno”, diceva Lisetta, perché non voleva più vivere. “Ma è morto il giorno prima, pensa: non ha dovuto farlo”. La vita va dove vuole e la morte arriva quando vuole, sorrideva, non possiamo determinare il destino ma sempre, sempre, dovremmo essere noi a decidere come affrontarlo.
La Regione Toscana, dunque, fa una legge in questa direzione e apriti cielo. Grida, scandalo, ricorsi, centrodestra contrario, cattolici di centrosinistra in crisi di coscienza: tutti pronti ad impedire ad altri di fare ciò che loro non farebbero senza che nessuno obblighi loro a fare ciò che non desiderano. Pronti a dettare la loro legge senza dettarla davvero, però. Perché c’è un problema. Una sentenza della Corte Costituzionale di sei anni fa, è del 2019, dice che “in assenza di intervento del Parlamento” è possibile accedere alla procedura di fine vita se esistono i requisiti di irreversibilità, autodeterminazione e dipendenza da trattamenti di sostegno vitale: dice che deve essere il Servizio sanitario nazionale a verificarli.
Invita infine il Parlamento a colmare quel vuoto: fare una legge. Sei anni, governi e maggioranze diverse, ma la legge non c’è. In caso di dubbio, appunto: restare immobili. Succede allora che siccome la competenza in materia sanitaria è delle Regioni sono le Regioni, alcune, a muoversi. Lo ha fatto per prima la Toscana, sono in marcia il Veneto, la Puglia e alcune altre. Ma no, non va bene nemmeno questo. Ricorso, presto. Che paradosso, commenta Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni, che un governo che “si batte per una maggiore autonomia regionale ora si batta contro quella che esiste”. Ma va così, perché la Chiesa, appunto. Perché il Papa, perché il Vaticano – che nel corpo del Paese sta in un luogo fra la milza e il fegato – non sono dell’avviso. Non vorranno mica, le Regioni, decidere su una materia così importante. Che si credono.
Allora discutetela però, discutiamola questa legge che non c’è. Perché tutti, a destra a sinistra al centro, tutti gli antichi democristiani e i loro più giovani eredi ancora saldamente al potere, in politica e in tv, tutti i protagonisti della grande festa canora nazionale e quelli che l’hanno vista da casa – tutta l’Italia, insomma – se cerca dentro casa sua sa di cosa stiamo parlando. Fuori dalla retorica, fuori dalla polemica: la malattia e la morte ci riguardano, non solo nelle canzoni, e come affrontarle è libera decisione di ciascuno. Sono passati sedici anni dalle guardie e i sigilli all’ospedale che ospitava Eluana Englaro. Sedici anni.
Anche ad essere fatalisti, lenti, concilianti, pazienti. Anche ad essere democristiani, sono tanti. Sono davvero troppi.