Il ritrovamento, non meno fausto che fortuito, d’un nastro magnetico contenente parte di un’intervista-fiume che Cesare Zavattini (1902-1989) mi rilasciò a più riprese in un torrido luglio del 1976 nella leggendaria casa romana di via Sant’Angela Merici, mi consente di tributare il mio personale omaggio allo scrittore emiliano.
Collaboratore del «Messaggero», nel maggio di quell’anno proposi a Ruggero Guarini, all’epoca coordinatore della terza pagina, un’Inchiesta sulla gestione del riso, e nei due mesi successivi intervistai il Gotha del cinema comico-satirico al fine d’accertare se e in quale misura lo spettacolo di massa più potente dopo la televisione avesse saputo incidere sulla realtà del nostro paese accelerandone in qualche modo lo sviluppo civile. Avevo poco più di vent’anni ed erano tempi di politicismo atroce, da cui lo stesso Zavattini era tutt’altro che immune. Certo si è che quell’incontro fu per me un’esperienza entusiasmante e profondamente istruttiva (si cominciò con gl’intellettuali e il fascismo — tra soffiate di naso per febbre da fieno, squilli di telefono cui si rispondeva in altre stanze, irruzioni della dattilografa Maria — e si finì col parlare dell’universo), oltre che la prima pietra d’un’amicizia che si sarebbe sempre più consolidata nel corso degli anni e che avrebbe fortemente influenzato la mia formazione umana e culturale.
Il testo che segue è la trascrizione parziale d’un colloquio inciso al magnetofono il 12 luglio 1976, con tutte le esitazioni, gli anacoluti, le correzioni in corsa, i cambî di progetto proprî del parlato improvviso; ovviamente al netto dei molti intercalari (capisci? hai capito? è vero?…) di cui il mio passionale interlocutore trapungeva, torcendosi sulla poltrona di cuoio liso, i suoi discorsi. Giudichi il lettore se il documento abbia un valore storico tale da doverlo sottrarre alla polvere dei miei archivî.
* * *
Alvino Negli anni del fascismo scrivevi su molte riviste umoristiche. Si trattava di pura evasione o c’era qualche spinta eversiva?
Zavattini Cominciamo da un punto. Durante gli anni del fascismo, per esempio, c’era un umorismo in Italia scatenato, addirittura. C’erano due o tre giornali…
Alvino Il «Marc’Aurelio», il «Bertoldo»…
Zavattini «Marc’Aurelio», «Settebello», «Bertoldo», che era quello di maggior successo. Ebbene la domanda che tu implicitamente, credo, fai è: questi giornali hanno servito…
Alvino il potere, lo status quo, o lo hanno combattuto?
Zavattini L’umorismo o riesce a diventare scandalo — e quindi a diventare azione in un senso diretto, inequivocabile — o altrimenti fa parte del solito processo intellettuale di mediazione e di rinvio. Sarebbe un falso in atto pubblico dire che noi umoristi in quel periodo abbiamo contribuito a una critica e a una satira del règime. Non è vero!
Alvino Perché potevate farlo e non l’avete fatto o per oggettiva impotenza? Tu credi, insomma, nell’efficacia di certi linguaggi, nella potenza deflagratoria dell’irrisione e della derisione, o ritieni sia impossibile cospirare, attraverso di essi, contro il potere?
Zavattini È possibilissimo: dipende dai rischi che sei in grado di correre, e non di a poco a poco ambientarti. Direi che in quegli anni, dal ’30 al ’40, giornali umoristici, grandi umoristi, ma nessuno eroico, nessuno è andato in galera.
Alvino E come spieghi che nel ’43 Totò e Anna Magnani, non ricordo in quale teatro di Roma, ogni sera concludevano con un grido alla libertà? Anna Magnani urlava «Vogliamo la libertà!». E ogni sera, quasi ogni sera — racconta Totò in un’intervista televisiva — qualcuno buttava bombe all’ingresso del teatro.
Zavattini Tu adesso mi parli di un episodio del ’43. Io non ho il diritto di fare il processo a due grandi defunti. La mia esperienza mi dice che se avessero fatto quello li avrebbero messi dentro.
Alvino E poiché non sono andati dentro, tu dici che devono averlo fatto in un modo più celato?
Zavattini Nel ’43 se andavi a teatro e non avevi il distintivo ti mandavano indietro, facevano delle grigliate, delle grigliate improvvise.
Alvino Andavate tutti col distintivo a teatro?
Zavattini Guarda, io una sera andai senza distintivo. Mi ricordo che andai a prendere il distintivo e rientrai a teatro, evidentemente mi premeva lo spettacolo. Guarda, una delle cose più caratteristiche — ma non dell’Italia, credo nel mondo — è questo continuo cercare di valorizzare quello che non si è fatto.
Alvino Vuoi dire che in quel periodo non ti sei mai seduto allo scrittoio con l’intenzione di scardinare…
Zavattini Guarda, vuoi un esempio tipico? Feci un soggettino che iniziò la collaborazione fra me e Vittorio De Sica. Questo soggettino finiva che il padrone di una fabbrica, accortosi che l’operaio che lui aveva addirittura elevato a condirettore perché lo credeva proprietario di un anellino con delle qualità miracolose, accortosi che ’ste qualità miracolose non c’erano, lo mandava via a calci in culo. Questa fu giudicata una cosa negativa e dissero questo film non lo fate. Allora, non mi ricordo con esattezza matematica, ma mi pare che cambiai il finale, ma lo stesso non si fece più. Era già screditato nell’ambiente ufficiale. Che poi ci fossero ogni tanto (ma non io, tanti altri, fra le loro righe) delle cose che, portate alle estreme conseguenze, arrivassero a intaccare le strutture, senza dubbio; ma basta che non fosse manifestato, espettorato… Anche un versetto di Epitteto se lo pubblichi ti sconvolge tutto il reggimento o lo Stato, ma quello te lo lasciano pubblicare. E allora, con tutto il rispetto per Totò e la Magnani, se questo lo hanno fatto vuol dire che c’è una trovata, dentro, secondo me, per la quale… Ma anche questo non ho il diritto di dirlo perché, siccome non me lo ricordo un esempio così importante, così clamoroso… non me lo ricordo assolutamente, mi devo limitare a dire che se ricordo l’aura, quel momento, dico: mi sembra meraviglioso e basta, ed è altrettanto meraviglioso che non me lo ricordi, ecco.
Alvino Quindi, abbiamo parlato del periodo fascista. E dopo?
Zavattini Dal dopoguerra a oggi… Il mio modesto discorso è questo. C’era, e c’è, un maggior permesso di esprimersi…
Alvino Fino a un certo punto.
Zavattini Di bestemmiare…
Alvino Di inveire.
Zavattini Di insorgere, d’inveire, eccetera. Senza dubbio, questo è un dato della democrazia, che non è mica un merito del governo, perché a un certo punto il governo si vanta, dice: ohé, ma guardate che vi abbiamo lasciato liberi. Ohé, dico io, la libertà mica ce l’avete data voi, la libertà l’ha conquistata un sacco di gente che si è rotta i coglioni, ci ha rimesso la pelle, tutti insieme ci hanno dato ’sta libertà, alla quale non eravamo neanche abituati, e forse non ci siamo bene bene bene neanche ancora abituati.
Alvino Scusa, ma la libertà di cui parli non la vedo. Forse non lo ricordi, ma noi già ci conosciamo: eravamo insieme al cinema Planetario a protestare contro il sequestro di Ultimo tango a Parigi. Libertà?
Zavattini Be’, se tu parli di questo, allora ti devo dire che nel ’45-’46 c’è stato un inizio, uno sviluppo del movimento contestativo del cinema. Cioè il cinema, come associazione, ha fatto delle cose notevoli. Ci sono stati degli alti e dei bassi, ci sono stati dei momenti influenzati proprio dalla politica, dal processo politico. Però, al di sopra di questo, ogni tanto ci sono state delle agglomerazioni “contro”. Contro la censura, per esempio (che c’è ancora). Quando io parlo di libertà, adesso c’è la libertà, di fronte a quello che c’era una volta non è neanche confrontabile; è quello che i giovani non riescono a capire: sino a che punto non c’era la libertà. È qualche cosa di cui oggi uno non finisce mai, mai di vergognarsi, nel senso di dire: ma sino a che punto abbiamo una capacità anfibia? sino a che punto siamo capaci… A un certo punto tolgono l’aria, ebbene, noi andiamo avanti senza respirare. È impressionante questa capacità che noi avevamo a quell’epoca là. Dopo c’era la libertà; ma la libertà che cos’è, un bene fisso, un bene che ha un peso, un colore, un sapore, una cosa sempre uguale? Non è mica vero. La libertà acquista col tempo sempre nuove istanze, perché sono le istanze di una maggiore maturazione che tu hai, una maggiore coscienza democratica, per cui certe cose che una volta ti pareva di vivere liberamente t’accorgi che non le vivi liberamente, cioè che hai una quantità di condizionamenti che una volta non t’accorgevi di avere: questo è il frutto della democrazia. Ebbene, il cinema italiano ha fatto molto, sia sul piano dei film sia sul piano delle lotte associative; ma sarebbe, secondo me, un po’ troppo ottimistico dire che ha fatto quello che doveva fare.
Alvino Dunque, abbiamo toccato la questione fondamentale: quella del potere. Vorrei riassumerti quanto, al riguardo, hanno detto altri intervistati. Steno sostiene che l’umorista è un istintivo: un giorno può svegliarsi con un’intenzione, un giorno con un’altra; un giorno può parlare delle sofferenze cui è sottoposto l’operaio alla catena di montaggio e ridicolizzarlo, un altro giorno può anche dire: il padrone, con tutti i guai e le responsabilità che ha, può prendersi un infarto. Un qualunquismo viscerale, gianniniano. Intitolerò l’intervista Una mattina mi son svegliato.
Il pezzo su Nanni Loy lo intitolerò, invece, Il potere ha l’impermeabile. È una sua frase.
Zavattini Bello questo criterio di un titolo che rispecchia la frase di altri.
Alvino Il potere ha l’impermeabile nel senso che, benché sia comunista, Loy è un rinunciatario. Dice che l’intervento dell’umorista, della cultura e dell’espressione in genere può essere talvolta incisivo sulla realtà, ma si tratta di qualche goccia che s’intrufola nei frastagli, in una smagliatura, in un buco dell’impermeabile che il potere indossa. Quindi non crede nella carica, nel potenziale deflagratorio dell’arte.
Il pezzo di Gigi Magni lo intitolerò La dinamite. Il contrario dell’impermeabile. Magni sostiene: noi intellettuali, noi artisti abbiamo in mano la dinamite, e il farla scoppiare o meno dipende dal grado di responsabilità e di coscienza civile che abbiamo. Tu come la vedi?
Zavattini Io penso che è vero che abbiamo un potere immenso. Vedi, puoi essere pessimista sinché vuoi, ma a un certo punto salta su uno che ti dice: madonna! con la matita fai una moltiplicazione, uno per 5 miliardi, quanti siamo… Dio mio, è una carica di fronte alla quale la carica del sole diventa un fiammifero. Ma tu pensa come sarebbe terribile se questa fosse una situazione così, cioè che l’uomo vive in questa maniera con dei suoi eroi, ogni tanto… È tremendo. È una vita che non mi piace, che mi stanca, mi annoia, una vita ripetitiva. Credo che ci sia una cultura di pochi, una cultura… elitaria. Io faccio una distinzione netta, proprio un taglio cesareo e dico: esiste (ancora oggi) una cultura di pochi, che vuol dire un’interpretazione della vita di pochi; i pochi stessi sono vittime della loro pochezza, e mettono in moto automaticamente dei sistemi sia ideativi, concettivi, che pratici dentro al limite del loro non sapere. Cioè, si arriva a una dichiarazione che può parere paradossale: che questa cultura è tipicamente ignorante. È in partenza un profondo segno d’ignoranza. Noi viviamo nell’ignoranza!
Alvino Illudendoci del contrario, il che è più grave.
Zavattini Illudendoci… Anzi, anzi, illudersi del contrario è tipico, caratteristico della ignoranza, la ignoranza non può che produrre questo qua. Perciò io sento il bisogno di moltiplicare gli accessi. Quindi all’erta! all’erta! all’erta! perché se no succede che la cultura dei pochi riesce a prendere in mano la democrazia e a tagliarle tutte le ipotesi di lavoro nuove, veramente nuove, che verrebbero dal contributo dei molti. So benissimo che perfino duemila anni fa quello là parlava di essere uguali. Quelli che hanno svolto il tema contro la cultura elitaria, essendo elitari, sono arrivati a un massimo di castrazione, ma non possono andare più in là, più che castrarsi. Allora bisogna creare la coscienza di un momento di emergenza, di urgenza, che è questo, in cui il fatto della moltiplicazione degli accessi… Ma non è mica un fatterello da poco, non è mica una correzione di quello che c’è: è un ribaltamento. Un ribaltamento di una difficoltà enorme, che non esclude la lotta…
Alvino È la rivoluzione.
Zavattini Ma non è una rivoluzione che dice: facciamo la rivoluzione. No! Facciamo questa cosa qua, cioè aiutiamo le masse a individualizzarsi. Cioè, è una massa di individui, non è una massa. E allora questo qua è tutto da scoprire. Noi che ci dobbiamo ritirare, in un certo senso, sappiamo che la lotta è feroce perché in noi stessi, nell’istante che diamo il mezzo di venire contro di noi, nasce una forza di difesa e di conservazione che è quella nata dalla fruizione di una cultura elitaria per secoli e secoli e secoli. Non è mica che tu lo fai con un decreto, lo fai con tutto, cioè bisogna lavorare nelle scuole, nelle case, nelle caserme, nelle piazze, nelle notti, nelle alcove… Io ho la necessità di un nuovo tipo di vita, che non può nascere altro che da fonti che sono umane; io devo partire dall’uomo, è questa enorme fiducia nell’uomo… inutilizzato, diciamo così, inutilizzato. E allora si tratta di dire: noi cominciamo a costruire una cultura di massa, che non c’è, che non c’è, che non c’è.
Alvino Dal ’68 è in auge una visione del mondo non molto dissimile da quella che hai appena delineato. Io credo che si stia procedendo a grandi passi verso la moltiplicazione degli accessi, anche se siamo ancora lontani da una partecipazione allargata e consapevole.
Zavattini Ma allora ti posso dire che non esiste un periodo in cui non ci siano dei conati. Il nostro problema è quello di abbandonare il conato e di organizzarci, organizzarci. Per cui, in un certo senso, sono contro chi dice: facciamo quello che possiamo. No, niente! Una fiducia sconfinata, sconfinata. Ma in chi? Nell’uomo.
Alvino Hai detto: non si è fatto, non abbiamo fatto ciò che dovevamo fare. Ma fino a che punto, fino a quale data? Ossia, tu pensi che, oltre ai progetti di cui parli, sia già in atto…
Zavattini È vero, dei risultati ci sono; il timore è che li consideriamo talmente positivi che diventano risultati visti dalla cultura di prima, per cui la cultura dei molti dovrebbe, sì, assumere questi risultati, ma vagliandoli criticamente e autocriticamente di continuo…
Alvino Il che non succede.
Zavattini … rispetto a questa unità di misura che è la pluralità, che cambia proprio le strutture educative, le strutture conversative, le strutture di convivenza, scolastiche, giuridiche…
Alvino Il costume.
Zavattini Ma un costume nel profondo, proprio. Ora, come si fa a dire che se ci sono stati 12 milioni di voti al PC ci sono stati anche perché ci sono stati certi film, ci sono stati certi umoristi, ci sono stati certi consigli, certi libri?
Alvino Quindi, dei risultati ci sono, ma c’è ancora da fare.
Zavattini Ci sono, io dico che ci sono, cioè, 12 milioni eccetera, certe idee di rinnovamento, di cambiamento, di trasformazione… Ed è insidioso perché parlano di trasformazione anche coloro stessi contro i quali andiamo, anche loro parlano di trasformazione, di cambiamento, quindi vuol dire… la insidiosità. Ecco perché c’è un processo di scavo e di mutamento molto più radicale; ecco perché, per quanto abbiamo fatto, se parlo per noi intellettuali, dico che abbiamo un campo di sterro, perché quelli che stanno nascendo non nascano già acculturati nel grembo materno di quel tipo di cultura che qualche cosa fa. Ecco, il timore di negarla, che sarebbe come tagliarle le gambe durante la corsa… Non si può essere così, non vorrei che l’ansia diventasse negazione di quello che c’è, però guai se tendi a ottundere l’autocritica, capisci? Guai, guai, guai! Questo lo può fare una nuova cultura, perché la vecchia cultura, cioè la cultura dei pochi, la cultura elitaria da questo punto di vista ha fallito, ma ha fallito totalmente, non ci ha dato altro che una decantazione… ma neanche una decantazione, ci ha dato l’ambiguità, l’ambiguità come privilegio, perfino. È tremendo questo! Cioè io, nel mio piccolo, sono un uomo profondamente scontento e insoddisfatto, ma non degli altri, di me, perché anch’io sono un uomo incasellato, per quanto cerchi…
Alvino Sei un prodotto del tuo tempo.
Zavattini Sì, e allora delle volte m’accorgo che questa mia ribellione contro il mio tempo è una ribellione che ha troppi codici, troppe parole d’ordine e così via. Il cinema stesso è un tipico esempio: deride, si ribella, ma lo fa dentro al cerchio prestabilito. Questa è la verità. Perché questo cerchio prestabilito è il cerchio frutto della cultura dei pochi. La cultura dei molti tu capisci che si mangia vivi i progetti Zavattini, i progetti Garinei, i progetti Giovannini, i progetti… Diventiamo niente, perché è un’altra visione della vita, veramente un’altra visione della vita. Insomma, la cultura dei pochi è veramente una interpretazione della vita.
Alvino Una vera e propria Weltanschauung.
Zavattini Assolutamente una Weltanschauung. E le correzioni sono portate dentro con le forze anche dei grandi nomi che non vorrei dire, dei grandi nomi hanno operato — intellettualmente — elitariamente. E si sono imposti perfino. Si capisce che anche lì c’è tutta una gamma, ma è una gamma dentro a questo limite, e il grande fatto è che ci siamo vicini, che sia possibile, è proprio questo accesso, no?, nel piccolo e alla televisione. Ma tu capisci che razza di accessi ci vorrebbero.
Alvino Più che accesso, irruzione.
Zavattini Irruzione! E allora vedi che è un lavoro capillare, di giorno in giorno, faticoso, di lotta continua. Proprio non c’è una cosa dove non ci sia continuamente questo bilanciarsi tra una prospettiva e un’attualità. Ma sempre. E qual è il punto di riferimento? Che quelli per i quali ho lavorato non hanno lavorato loro per me perché non gli abbiamo dato le possibilità di lavorare. Quindi, vedi che trasformazione… Tu dici: ma questo è stato sempre detto, dal suffragio universale… No, io nego, nego che ci siano delle partecipazioni concrete, organiche della massa, delle moltitudini, del concetto di moltitudine, perché le possiamo far entrare solamente se ho un concetto dell’uomo diverso da quello che ho adesso. Quello che abbiamo adesso è ancora un concetto di un uomo che è, nel migliore dei casi, aspirante all’arte, pensa un pochettino! Cioè, l’abbiamo tirato su in modo che ci imiti e non che ci contrasti, per cui avremmo la tremenda cosa, il risultato spaventoso che tutti dipingono, che tutti scolpiscono, che tutti poetano…