Yagil ha tredici anni. Tredici sono gli anni che un ragazzo ebreo ha quando celebra il suo Bar Mitzvah, ovvero il passaggio dall’infanzia all’età matura. In questa occasione il ragazzo si impegna a rispettare i 613 mitzvot (precetti) della Torah e assume piena responsabilità di discernimento tra il bene e il male. In questa occasione il ragazzo tiene un discorso che segna il suo ingresso nel mondo adulto.
È ciò che Yagil ha fatto, davanti alla telecamera, col ciuffo ribelle che solo brevemente ne nasconde l’espressione. Parla a chi sta a casa, come avesse imparato la parte per una recita a scuola, l’emozione lo tradisce a tratti, l’aria gli manca e inala a pieni polmoni per arrivare in fondo. Un piccolo grande uomo, che sul palco di un teatro ci ruberebbe un sorriso e lì, con lo sfondo verde in un luogo inimmaginabile, senza sapere né noi né chi gli vuole bene chi abbia davanti, fa venire il groppo in gola.
Il discorso che fa è il discorso che un ostaggio deve fare: sto bene, non mi maltrattano, fermate i bombardamenti, se morirò sarà colpa tua, Netanyahu. È un bimbo chiamato ad avere coraggio e, per quanto la voce gli tremi, tira avanti, tuttalpiù gesticolando, e ci lascia senza fiato. Potrebbe essere nostro figlio, nostro nipote, non lo è, ma poco importa: è Yagil, di tredici anni, e tanto basta a farci battere il cuore all’impazzata. Ma Yagil ci dice altro: stai uccidendo i bambini, Netanyahu. Viene dato a lui l’incarico di ricordarlo al mondo, ad un bambino che si affaccia all’universo degli adulti con il suo primo discorso pubblico: un bambino israeliano ci dice che molti, moltissimi bambini palestinesi stanno morendo, ma che a lui non succederà, a meno che Netanyahu non bombardi il luogo — sconosciuto — dove lo tengono. È la crudeltà di questa guerra, che espone i più piccoli al gioco perverso dei grandi, peggio di altre guerre, perché è un conflitto che non segue regole, è un conflitto che si scatena in un’anarchia disperata, in cui le due parti si contendono il principio di rivalsa proporzionale al danno subito, secondo una dottrina che speravamo superata: porre rimedio ad un male ingiusto con un male di pari, se non più alto grado.
Dal 7 ottobre ad oggi tra i bambini israeliani ci sono quelli morti ammazzati, gli orfani, gli ostaggi, mentre a Gaza le madri scrivono i nomi dei figli sui loro corpi, perché sono troppi i morti, per dar loro un volto. Ne muore uno ogni dieci minuti. Li abbiamo visti piangere, abbiamo visto i loro visi imbrattati di sangue e polvere, mentre li fasciano senza lavarli, perché mancano sia il tempo che l’acqua.
E fuori da quell’inferno, ce ne sono altri: ci sono i 147 minori palestinesi nelle carceri israeliane, chiamati terroristi anche solo per aver alzato una pietra contro un carro armato passato sulle mura della casa in cui abitavano. E poi, allargando il raggio, la violenza arriva a scuotere la serenità delle famiglie che sono, per ora, ancora insieme. Nelle città israeliane piovono i razzi e suonano le sirene, in quelle palestinesi cadono le bombe ed entrano i bulldozer a demolire le case e scavare via le strade. Da ambo le parti, i bambini sono terrorizzati.
Ma non è tutto, siccome il mondo non è piatto e non ha confini se non immaginari, ciò che accade su un lato della nostra sfera è destinato a scivolare lungo le molte strade che abbiamo tracciato e raggiungere porzioni di terra fin dall’altra parte. Cosa raccontiamo ai nostri bambini? Noi, qui, in questa zona di mondo che finge di non essere in guerra? Cosa diciamo loro quando vedono le immagini al telegiornale? Cosa possiamo spiegare dell’imbarazzante carneficina che si sta consumando?
Pensavamo di esserci sistemati, abbiamo pensato che l’eredità lasciataci dai nostri nonni alla fine delle due guerre mondiali fosse sufficiente a vivere in pace e per questo ci siamo rilassati. Male. Avremmo dovuto lavorare sodo e non lo abbiamo fatto. Non abbiamo capito che quella che ci hanno affidato non era che una bozza del diritto internazionale, a cui andavano fatti seri e fondamentali ritocchi e aggiornamenti, prima che il ciclo naturale delle cose ci riportasse ad una nuova fase di conflitti e guerre. Ed ora che assistiamo allo sgretolamento delle regole che ci siamo dati, portate via come polvere in un soffio di vento, siamo spiazzati. Invece quelle norme vanno ripensate, perché nessuno, né un gruppo di miliziani, né tanto meno (o a maggior ragione?) uno Stato possano agire in piena autonomia e decidere, senza freni, di spazzare via i diritti dei più fragili, mentre il mondo guarda paralizzato.
L’autrice è una scrittrice italo-palestinese