Orhan Pamuk
GIOVANNA LOCCATELLI
Il premio Nobel turco per la letteratura Orhan Pamuk – a Milano per Bookcity – si dice molto «triste e frustrato» rispetto a quello che sta succedendo in Medio Oriente. Uno scontro «disumano» da entrambe le parti, dichiara lo scrittore. I suoi sentimenti sono divisi. Provenendo da una cultura musulmana, si sente più incline ad identificarsi con i palestinesi, come ha lui stesso affermato. Ma allo stesso tempo «cerco di capire anche la posizione di Israele».
Pamuk, quale dovrebbe essere il ruolo oggi degli intellettuali di fronte a queste questioni che sconvolgono il mondo?
«Gli intellettuali dovrebbero imparare prima di tutto ad essere moderati. Quando le bombe esplodono e il sangue scorre, hanno poco potere. Ma possono aiutare a guardare le cose in modo diverso. Gli intellettuali possono pensare meglio delle persone consumate dalla guerra e dalla propaganda».
Recentemente, alla fiera di Francoforte, la scrittrice palestinese Adania Shibli non è stata premiata. Come è successo anche, in passato, con artisti ed opere russe. La censura nella cultura la spaventa?
«Se vengono censurati autori, mi opporrò sempre. Noi dobbiamo sempre preservare la libertà di parola. Non mi interessano i colori politici e la fede religiosa, quando si parla di arte, letteratura e cultura bisogna sempre stare dalla parte della libertà di espressione. Quindi sono ovviamente contrario a quello che è successo alla scrittrice palestinese, ho firmato anche una petizione insieme ad altri miei colleghi. Come sono contrario alla censura di opere o letterati russi. Questo tema mi sta molto a cuore. Mi dispiace che nel mio Paese, la Turchia, la libertà di parola sia limitata e le persone non si possano esprimere liberamente».
La libertà e il viaggio sembrano essere i fili conduttori del suo ultimo libro, Ricordi di montagne lontane. Attraverso i suoi taccuini, porta il lettore in tanti luoghi del mondo: dal Medio Oriente all’India, dalla Turchia all’America. Disegno e scrittura si mescolano insieme. Da quale paesaggio si sente più attratto e perché?
«Il lavoro svolto su questo mio ultimo volume ha preso molto tempo. Ho dovuto selezionare immagini e scritti da più di trenta taccuini che ho accumulato nel tempo. Ci sono disegni reali che riproduco guardando un paesaggio e ci sono disegni immaginari, fantastici, come quello della copertina. Quando ho in mano i pennelli, mi sento emozionato come un bambino che si diverte con i colori. A volte quando scrivo nel mio taccuino, lascio uno spazio in bianco e ci ritorno in un secondo momento. Oppure disegno una pagina e poi nella stessa pagina torno a scriverci tempo dopo. Non c’è una cronologia precisa. A volte succede anche che lascio lo spazio in bianco. In generale, mi ispiro ai maestri cinesi: acqua, montagne, isola e terra sono gli elementi che preferisco. Loro hanno inventato tutto, non io, (sorride Pamuk). Nella mia casa, ho una collezione di quadri dei maestri cinesi. La pittura cinese è una delle più antiche tradizioni artistiche del mondo».
Questo libro è stato descritto come un “diario di viaggio interiore”, è d’accordo?
«No, non sono molto d’accordo. Sarebbe meglio dire che la composizione del libro è stata un viaggio. Un viaggio immaginario. Magari, quando morirò, pubblicheranno tutti i miei taccuini ma questa è un’altra storia. In queste pagine, c’è molto di me; dei luoghi che ho visitato in giro per il mondo grazie ai miei libri; ci sono molti miei stati d’animo e pensieri. Disegnare è per me una forma di liberazione: mi sento libero e felice con i pennelli in mano. E quando sono triste e depresso, disegno».
Ha disegnato molto anche il Bosforo. Istanbul è cambiata negli ultimi vent’anni, quale è il suo stato d’animo quando va in giro per la città?
«Quando vado in giro ho tanti sentimenti diversi. Non sono animato da un unico sentimento. È facile criticare e dire che alcune cose non vanno, ed è anche giusto farlo quando c’è da salvaguardare i palazzi di pregio storico. Non preservare la bellezza storica della città è sicuramente un peccato. Ma d’altra parte, non ho nulla da criticare se vengono costruite più strade o realizzati più ponti, se questo può avvantaggiare in qualche modo anche le classi meno abbienti. Quando ero piccolo io, le classi povere non avevano mai visto il mare, magari ora lo possono vedere».
Molti di questi mega progetti e la gentrificazione urbana sembrano fatti ad uso e consumo delle classi più abbienti e per attrarre investitori. Il rischio è che alcuni posti siano inavvicinabili anche per la classe media turca, è così?
«Sono d’accordo con lei. Il pericolo c’è».
Tra le nuove costruzioni, Galataport – da poco terminato – ha cambiato i connotati di un’intera area che si affaccia sul Bosforo. Istanbul non rischia di perdere così la sua identità?
«Galataport ce l’ho davanti casa, certamente ha cambiato molto la zona in cui sorge. I rumori di trivelle di quel cantiere mi hanno accompagnato negli anni. Le rivolte di Gezi (nel 2013) sono state proprio questo: il desiderio di salvaguardare lo spazio urbano contro i cambiamenti legati alle politiche di Erdogan. Nel 1970, studiavo architettura ad Istanbul, il professore di urbanistica aveva già previsto quello che sarebbe poi successo. Lui diceva che la parte asiatica, con Sultanahmet, andava assolutamente preservata; la parte occidentale, quella più centrale, avrebbe invece subìto molte trasformazioni. Così è stato. Io non sono un militante però. Preservare gli edifici antichi è importante e bisogna farlo. Ma come in ogni cosa, ci sono sempre i pro ed i contro, non mi piace schierarmi solo da una parte. Ad esempio, ci sono tanti giovani a Istanbul che non hanno mai conosciuto e vissuto i miei luoghi della memoria e non ci sono – dunque – legati sentimentalmente. Chi sono io per dire che un cinema, a cui magari sono affezionato, non deve essere sostituito con qualcos’altro?».