Nel 1968 la televisione francese affidò al giornalista Jean José Marchand una serie di incontri con scrittori e artisti, sotto il nome di «Archives du XXe siècle». È un’insostituibile fonte documentaria sulla cultura del secolo scorso, da Duchamp a Ungaretti, da Montherlant a Lévi-Strauss, da Caillois a Dos Passos, dagli ultimi testimoni del Dada a De Chirico.
Il 1° agosto 1970 le telecamere entrarono nel giardino di Paul Morand a Rambouillet e registrarono un’intervista di due ore, reperibile su YouTube. Morand sfoggia l’allure di un ottuagenario sportivo e vigoroso e racconta l’intera sua vita: ed è vedendolo e sentendolo conversare (curiosamente aveva la nomea d’essere una presenza silenziosa e imperscrutabile) che si comprende quale fascino potesse emanare. Colto, elegante, capace di trasmettere un amore per la vita esteso in superficie più che in profondità, Morand deve la sua leggenda non solo alle qualità di scrittore ma al potere seduttivo che gli valse l’amicizia (e la dedica a un suo libro) di Prougst, la carriera diplomatica nonostante una tenace vocazione all’assenteismo, le porte spalancate dell’aristocrazia inglese ancor più che parigina, i circoli artistici dove piroettava l’amico Cocteau, le case editrici che se lo contendevano, i possedimenti e il talamo di un’altra creatura cara a Proust, la principessa rumena Hélène Soutzo (in realtà figlia di banchieri greci), e infinite imprese erotiche fino in tarda età.
Com’è possibile che un personaggio così carismatico e cresciuto nel monde cosmopolita fosse al contempo un figuro delle cui capacità affettive ed empatiche si va in cerca invano, un antisemita feroce, un nemico giurato dei pédés (ma Proust, allora? e Cocteau?), un indifferente alle sorti degli amici, un opportunista filo-nazi? E per giunta senza il colore luciferino dell’odio di Céline (che lo detestava) o il vitalismo di Brasillach, ma con un sussiego trombonesco.
Il suo diario degli anni di guerra, quando fu nominato capo legazione a Bucarest dal governo di Vichy, è tuttora sous réserve, ma Pauline Dreyfus ne ha pubblicato stralci nella sua magistrale biografia di Morand (Gallimard 2020, prix Goncourt) e quel che vi si legge è di uno squallore imperdonabile. Com’è possibile? Maurizio Serra (accademico di Francia come Morand), nella prefazione a Londra che esce adesso per Settecolori, carica Hélène («un personaggio uscito dal calderone delle streghe di Macbeth, la ricchissima, vecchia e brutta madre-moglie greco-romena») di una responsabilità precisa; ma forse le contraddizioni di Morand sono le stesse, insanate, di tutto il suo secolo, e assegnano alla sua figura un’incongruente esemplarità.
Ciò che è intatto in Morand è la qualità della scrittura. Scrisse un libro dopo l’altro, spesso usando il copia e incolla, da testi quasi pornografici alle memorie di Coco Chanel (che a lei non piacquero), e non sono tutti capolavori. Ma quando dà il meglio è uno scrittore irresistibile: un anti-Proust, nonostante l’assiduità al capezzale del recluso, perché dove la frase di Proust è fatta come il collo sinuoso e interminabile dei cigni, la frase di Morand ha la rapidità e la rapacità di un’aquila che attacca, soprattutto nei primi libri. Il viaggio e la velocità sono i feticci dello scrittore che colleziona macchine sportive, fa più volte il giro del mondo in aereo, scatta alle città fotografie verbali cogliendo l’istante decisivo; ma che soprattutto usa la velocità per sostanziare in senso nuovo e moderno la letteratura di viaggio, così che fra i libri esotici di Maxime Du Camp o Pierre Loti ed i suoi c’è lo stesso rapporto tra un salone illuminato dal morbido calore delle candele e lo stesso salone abbagliato da fredda luce elettrica.
Piccolo borghese accolto nel gratin, Morand fu per tutta la vita ossessionato dal danaro e si specializzò presto nell’arte della contrattazione con gli editori. Buon per lui, ma soprattutto per noi che possiamo leggerlo su svariati argomenti. Per Plon, dopo il successo di New York, confezionò tra il 1933 e il 1934 due libri su altrettante città del cuore, Bucarest e questo Londra, tradotto benissimo da Leopoldo Carra. A Londra Morand dovette la propria iniziazione intellettuale e mondana: parlava un inglese perfetto e di quella cultura sapeva cogliere la specificità, le radici storiche e il lessico minuto dei particolari. Dopo una prima “biografia” diacronica della città, sintetica ma non priva di interesse quando ripercorre il secolo di Samuel Pepys, entra in scena la “sua” Londra, quella vissuta da lui stesso, raccontata con un potere di evocazione straordinario.
Quattro meriti, per riassumere. Uno è la rinuncia al colore locale: è uno scrittore troppo avveduto per cedervi. Il tono è invece asciutto, per nulla compiaciuto o indulgente. Il secondo è la capacità di connettere la fotografia del presente con gli echi della memoria culturale e letteraria, per esempio nelle splendide pagine dedicate ai quartieri poveri in cui Morand entra ed esce dai capitoli dei Misteri di Londra di Paul Féval.
Il terzo è la ricchezza e la vastità dello sguardo, che abbraccia la sintesi di tutto ma frastaglia le descrizioni in un’infinità di dettagli pertinenti. Il quarto è il tradursi dell’anaffettività in una prospettiva dall’alto, senza implicazioni del cuore, oggettiva e per questo precisa, senza sconti e “moderna”. In questo paradosso c’è forse il segreto della presenza, tuttora forte, di Paul Morand in un mondo dove tutto è cambiato.
Paul Morand
Londra
Settecolori, pagg. 350, € 28