È bello. Per la prima volta un film ripercorre il suo pensiero politico in modo rispettoso, efficace, sobrio. L’unico appunto: la discussione nella Direzione del Pci è un po’ artefatta, bozzettistica. In particolare, la figura di Ingrao.
Luciana Castellina ha definito il Berlinguer del film un “santino”, quasi un dirigente del Partito Liberale.
Non sono d’accordo. Nel film è in evidenza una frase di Berlinguer che per me racchiude l’essenza della sua missione politica. Quando parla – vado a memoria – della necessità di introdurre elementi di socialismo nella società italiana. Attraverso la democrazia, dice, il Pci vuole costruire una società socialista che rispetti tutte le libertà tranne una, quella di sfruttare un altro essere umano. Perché questa libertà, tutte le altre vanifica. Come si fa a definirlo un liberale?
E un santino?
Anch’io ritengo insopportabile la trasformazione di Berlinguer in un santino, buono per tutti. È stato un difensore estremo delle istituzioni democratiche, ma era un uomo di parte: fino all’ultimo è rimasto un comunista italiano che voleva cambiare i rapporti di forza profondi. Alla festa dell’Unità di Genova nel ’77, in questo senso, spiega perché il Pci non si sarebbe mai potuto definire socialdemocratico.
Lei come ha vissuto il compromesso storico?
Ero un dirigente della Fgci romana con Borgna, Veltroni, Adornato, Giulia Rodano. Eravamo irrequieti e creativi (sorride). Eppure accettammo la proposta, capendone la portata. Non scaturiva solo dal timore di un colpo di Stato di tipo cileno da parte dei fascisti. Quella strategia partiva dalla convinzione che, proprio per cambiare gli assetti sostanziali della società italiana, servisse un consenso popolare amplissimo, come argine ai possibili contraccolpi. Era questa la sua “grande ambizione”. Dopo la morte di Moro, secondo me avvertì amaramente che era stata un’illusione: portare tutta la Dc dentro questo processo.
Era possibile spaccarla?
Credo di no. Moro intendeva aprire nuove vie, senza tuttavia mettere mai in pericolo l’unità della Dc.
Il compromesso storico fallì per questo motivo?
Per tante ragioni, ma il quadro internazionale fu decisivo. I sovietici erano diffidenti rispetto a qualsiasi assetto mettesse in discussione la tenuta del mondo comunista. Vedevano il Pci come fumo negli occhi. Allo stesso modo, gli Stati Uniti pensavano che il Compromesso storico fosse una sorta di cavallo di Troia dei comunisti, per cambiare gli equilibri in Occidente. Certo non fu un intervento di tipo cileno, ma fecero le pressioni necessarie. Berlinguer fu un gigante nel manovrare in mezzo a queste due forze avverse così più potenti di noi. Ma, appunto, con la venuta meno di Moro perse il suo ultimo appiglio. Ricordo una frase che mi disse in quelle ore Chiaromonte, il suo numero due: “Senza Moro, Berlinguer non si fida più di nessuno”.
In sala ho visto tanti giovani.
Penso che i giovani siano colpiti non tanto dalla complessità del Berlinguer politico, piuttosto dall’esempio che vorrebbero ritrovare oggi. Un esempio di coerenza, di dedizione, di integrità: la corrispondenza tra ciò che si dice e i comportamenti, la vita che si conduce.
La loro nostalgia è un sentimento sano o un senso di consolatoria sconfitta?
Esiste una nostalgia statica, passiva: il ricordo di tempi passati che non torneranno più. Ma c’è anche una nostalgia attiva, che ti spinge a combattere. Perché la nostalgia non è solo verso quello che hai fatto, ma soprattutto verso quello che potevi fare ma non è germogliato. E ti spinge nel presente a completare ciò che è rimasto incompiuto. Ecco, l’obiettivo di Berlinguer non è stato raggiunto. Era compito nostro perseguirlo. Purtroppo, dopo l’89 e il crollo dei regimi autoritari dell’Est, una nuova scintilla per un cambiamento radicale dei rapporti di forza tra chi comanda e chi subisce non si è accesa. Se la perdi, perdi te stesso. Enrico l’ha testardamente tenuta viva, fino al suo ultimo comizio, quando le parole si impastano e in modo struggente tenta con tutte le sue forze di declinarle. Abbasso gli occhi quando scorrono quelle immagini.
La distanza tra la sinistra della “grande ambizione” e quella di oggi è siderale.
Allora la politica era convinta di poter cambiare il mondo, invece lo ha cambiato il nuovo turbocapitalismo mondializzato, intimamente intrecciato a sviluppi tecnologici inauditi.
È lecita, in questo senso, una forma di nostalgia anche per il mondo di prima, quello diviso in blocchi?
Ricordo, su questo, cosa mi disse Franco Rodano: attenzione, perché crollato il mondo sovietico (dico io: un grande fatto di libertà per milioni di persone), poi ne rimane uno solo. Che è avido, selvaggio, violento: il mondo capitalista. Sottolineava il fatto che sarebbe venuto avanti un pensiero unico, la fine della storia. Con noi disarmati. Ancora di fronte alla sinistra sta il compito di dare forza a un pensiero critico, come contrappeso all’ideologia dominante, che tutto riduce a merce ed ogni valore a un prezzo.
Crede ancora al campo largo?
Il termine “campo largo” non lo uso più, perché è stato frainteso. Ma credo nell’unità delle forze d’opposizione e nella possibilità di sconfiggere Meloni con la proposta di una società migliore. Tanto più dopo la vittoria di Trump. Ma trovo confusa la discussione dopo le elezioni americane. Ci vuole più tempo per capire. Trovo semplicistica, tuttavia, la contrapposizione tra élite e il popolo che soffre.
Non è così?
Cosa sono quelle che chiamiamo élite? Oggi si intende una stratificazione sociale molto ampia: la borghesia medio-alta che ha beneficiato della globalizzazione e con la quale, anche per certi comportamenti, siamo stati confusi. Ma la vera élite è un’altra cosa. Significa “i migliori”, i più colti, che sanno interpretare il senso dell’epoca e indicare una strategia, dando anche l’esempio. Paradossalmente, la sinistra perde perché priva di questo tipo di élite.
Berlinguer era élite?
In questo senso, sì. Il gruppo dirigente del Pci è stato una grande élite, di azione e di pensiero, in grado di stare in mezzo al popolo, di migliorare con il popolo e, allo stesso tempo, di contribuire a renderlo più cosciente. “Tornare al popolo” per fare un mero esercizio ginnico di propaganda serve a poco. Occorre pronunciare parole sincere, ragionate e che pesano circa i problemi materiali di chi fatica e stenta. Indicando, contemporaneamente, una speranza e un possibile riscatto.