di Luigi Manconi
E se questo fosse davvero l’anno della Grande Depressione? Il riferimento non è alla crisi economica mondiale che sul finire degli anni Venti colpì produzione e occupazione, redditi e capitali, consumi e risparmi; e che portò al crollo della Borsa di New York e al collasso finanziario internazionale. Qui si parla d’altro. Si parla di uno stato di profondo stress, di una caduta verticale dell’umore, di un tono psicologico che tende a farsi apatia e astenia e a scavare in profondità nel carattere.
Per milioni di italiani, è stata questa la condizione che ha fatto seguito all’infezione da Covid, prolungandosi in ciò che viene detto “long Covid” e che si manifesta come spossatezza fisica e mentale. E attraverso questi sintomi: dolori muscolari e articolari, inappetenza, fame d’aria, tosse costante, senso di oppressione, aritmia, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione e memoria (la cosiddetta nebbia mentale), ma innanzitutto e soprattutto una perdita di forza muscolare. Uno stato che può durare molti mesi, fino a un anno e oltre.
A questi sintomi clinici, che si manifestano in una quota della popolazione nazionale, corrisponde un quadro sociale, culturale e psicologico della società italiana, dominato, a sua volta, da ciò che chiamerei Grande Depressione. Ovvero un progressivo impallidire e illanguidire della voglia di vivere, un affievolirsi degli stimoli vitali, un appassire delle aspettative.
A questo mutamento generale dell’umore corrispondono fenomeni concreti e tangibili e fattori materiali e sociali. Insomma, penso che il quadro clinico prima descritto coincida largamente con la fisionomia collettiva degli italiani nel corso dell’attuale congiuntura.
In altri termini, nell’arco degli ultimi mesi e, c’è da temere, dei prossimi anni, si è assistito e si assisterà a una riduzione drastica dell’idea di futuro. Ovvero del sistema delle Promesse e delle Speranze. Prevalgono, nel migliore dei casi, sentimenti tiepidi: qualcosa di simile a “passioni tristi” (Spinoza). In tutti i campi.
A partire da quelli più complessi e gravati di storia, come la Chiesa cattolica che, dopo la morte di Benedetto XVI, paradossalmente, sembra aver ridimensionato l’effervescenza, anche se intensamente conflittuale, del pontificato di Bergoglio. Quest’ultimo oggi è chiamato più a gestire una incerta transizione verso ciò che verrà dopo (dopo le possibili dimissioni? Dopo il futuro conclave? Dopo una nuova fase della storia ecclesiale?), che a rilanciare la riforma della Chiesa. Ma questa stessa situazione riguarda in qualche modo l’intera società italiana nelle sue diverse dimensioni.
Il trionfo di Giorgia Meloni alle elezioni del 25 settembre scorso esprime plasticamente questo fenomeno. È tutto un magnificare le virtù del realismo, il senso di responsabilità, la scelta della moderazione. I descamisados più facinorosi della destra politica sono diventati, in un battibaleno, gli interpreti compassati e contegnosi della real politik bismarckiana.
I martellatori si sono fatti “abatini” (Gianni Brera), i catenacciari hanno imparato il più lezioso “ticchete-e-tocchete” (ancora Brera) in nome della governabilità e delle buone relazioni con l’Europa. Ma tutto ciò, comprensibilmente, non può produrre emozioni forti, slanci calorosi, euforia collettiva. Tutto ciò, per dirne una, comporta il passaggio dall’impegno a “sopprimere le accise” a quello di una loro mestissima “revisione strutturale”.
Nel campo opposto, le cose non vanno meglio, anzi. Promesse e Speranze si sono ristrette al punto da concentrarsi, pressoché tutte, nell’istinto di sopravvivenza. Il congresso del Pd si annuncia non come il lancio di una sfida, bensì come una via d’uscita dall’attuale disastro, se non addirittura come la sola via di scampo perseguibile. Una lotta per la vita, insomma. È fatale, pertanto, che nella fase congressuale e del confronto tra i leader, non sia emerso alcun autentico scontro tra “visioni” diverse, ma nemmeno – più modestamente – tra programmi di alternativi di riforma sociale.
E sono solo questi, “visioni” e programmi di riforma sociale, che possono alimentare le promesse, incentivare le speranze, mobilitare le passioni. Vale anche per altre sfere della società. Il sindacato – tanto più da quando si è riaperta la frattura tra Cisl, da una parte, e Uil e Cgil, dall’altra – funziona, quando funziona, come gestore di trattative e sottoscrittore di contratti, non più come agente del cambiamento. Persino il cosiddetto Terzo Settore rivela una simile situazione di tiepidezza.
Qui le cause sono altre: la crisi economica e l’aggressività delle destre hanno costretto sulla difensiva le organizzazioni non governative, in particolare quelle del soccorso in mare e dell’accoglienza per migranti e profughi.
I decreti sicurezza del governo giallo-verde e dell’attuale esecutivo hanno limitato pesantemente la libertà d’azione di movimenti e comitati. L’abnorme condanna nei confronti di Mimmo Lucano e della sua giunta ha rappresentato un grave fattore di intimidazione. Di conseguenza, all’interno di queste realtà, prevale oggi una strategia di resistenza che, a sua volta, ha l’effetto di disincentivare promesse e speranze, di far ripiegare le bandiere dell’entusiasmo collettivo e di ridurre le prospettive di lungo periodo.
Siamo, appunto, alla Grande Depressione che inevitabilmente si riproduce proprio laddove aveva trovato origine: nella vita quotidiana dei singoli. Si rimpiccioliscono, cioè, i programmi individuali e le attese nei confronti del domani, per sè e per i propri figli. Ci si concentra sulle solidarietà corte (familiari parentali amicali) e si investe meno sulle relazioni di comunità. Il futuro è qui e ora (la crisi demografica ha anche questa radice).
Nel 1957 Italo Calvino pubblicava, sulla rivista Città aperta, il racconto La gran bonaccia delle Antille, dove la metafora letteraria rivelava una forte critica all’immobilismo del quadro politico e, in specie, del Pci di Palmiro Togliatti. Poi, negli anni a seguire, accadde di tutto. Auguriamoci che la storia possa ripetersi.