PHOTOESPAÑA A MADRID
Rocco moliterni
Approdare a Photoespaña, il festival di fotografia che d’estate anima con decine di mostre ed eventi ormai da 26 anni la città di Madrid significa per chi arriva dall’Italia respirare una boccata d’aria fresca. Il fitto cartellone propone infatti accanto a nomi noti (Olaf, Goldblatt ed Erwitt per esempio) autentiche scoperte o riscoperte (tra gli altri l’americana Consuelo Kanaga, lo spagnolo Gonzalo Juanes, l’ucraino Boris Savelev, l’haitiana Widlite Cadet, la venezuelana Barbara Brandli) che ogni volta ti fanno chiedere perché in Italia continuino più o meno a circolare sempre le stesse mostre e sembra una grande novità vedere a Torino Margaret Bourke-White che da non molto è stata a Milano, oppure a Venezia Helmut Newton nell’anno della Biennale a pochi mesi dall’esposizione romana della stessa mostra. E ti chiedi anche perché ad esempio non si cerchino forme di collaborazione (pensiamo al neonato festival torinese) con Madrid per importare alcune sezioni della manifestazione.
«Photoespaña – spiega la nuova direttrice Maria Santoyo – cerca di espandere la nozione di fotografia e mostrare la straordinaria creatività e diversità della pratica artistica visiva consolidata dall’inizio del millennio. La fotografia non si limita più a rappresentare l’ambiente, ma lo costruisce e lo decostruisce. Sembra in grado di proiettare futuri che potrebbero accadere». La domanda giusta quindi oggi sembra essere non che cosa sia la fotografia ma che cosa può diventare. «La nostra manifestazione – aggiunge Maria Santoyo – vuole rispondere a questa domanda con un’ipotesi: il moto perpetuo, che è il tema scelto per questa edizione. La fotografia, come quella macchina utopica di energia infinita che sia gli alchimisti del Rinascimento sia gli ingegneri della modernità hanno cercato di concepire, è un mezzo dinamico, fluido, inesauribile, in permanente trasformazione. In questo nuovo ciclo Photoespaña vuole dedicare così un’attenzione particolare a nuove pratiche, formati e canali di creazione e produzione; alle figure emergenti sulla scena internazionale, che oggi riscoprono e valorizzano identità e gruppi considerati periferici nel secolo scorso in virtù del loro genere, provenienza o condizione sessuale».
A conferma di questa scelta la grande retrospettiva negli spazi del Centro Gomez è dedicata ad Erwin Olaf, a pochi mesi dalla morte, a 64 anni, del fotografo olandese. Anticonformista e irriverente Olaf è diventato famoso come fotografo di moda, ma la sua costante attenzione è sempre andata al mondo queer e Lgbtqia. I suoi ritratti e i suoi autoritratti, le sue serie e i suoi video, dal forte tratto innovatore, sono entrati nella storia della fotografia contemporanea. La mostra dal titolo Erwin Olaf, storie di emancipazione, desiderio e intimità a cura di Paco Barragan ne ripercorre la carriera, dagli Anni 80 ad oggi, seguendo i tre temi chiave della sua pratica artistica: emancipazione (corpo politico), desiderio (corpo sessuale), intimità (corpo affettivo). Sono struggenti gli ultimi autoritratti in cui non si sottraeva al mostrare il suo corpo malato.
Una vera scoperta è il fotografo asturiano Gonzalo Juanes, di cui c’è Un’incerta luz, la prima monografica alla Sala Canal de Isabel II. Juanes, nato nel 1923 e morto nel 2014, era conosciuto nei circoli fotografici spagnoli degli Anni 70 e 80, ma poi è stato dimenticato, anche perché non voleva in vita, né che le sue foto fossero stampate, né tanto meno che si organizzassero mostre. Eppure è una rivelazione, il modo che ha di raccontare la borghesia madrilena negli Anni del franchismo lo rende unico. Un po’ street photography, un po’ fotografia umanista: usa colori caldi e riesce a restituire l’atmosfera del tempo. Interessanti anche i suoi lavori in bianco e nero sul paesaggio delle Asturie. Ad usare colori caldi (le pellicole Kodak prima che scomparissero) è anche l’ucraino Boris Savelev, una cui personale approdò al festival di Reggio Emilia nel 2006. Qui in Una forma de mirar ci sono racconti tra l’intimismo e la documentazione di un paesaggio urbano slabbrato e minimalista, con gente che aspetta in desolate fermate del bus o vive in angoli tristi di case (notevole l’immagine delle donne sulla Piazza Rossa nel 1981).
Due le rassegne da non perdere alla Fundacion Mapfre: Atrapar el espiritu dell’americana Consuelo Kanaga e Sin secundas intenciones del sudafricano David Golkdblatt. Diciamolo subito, Consuelo Kanaga (1894-1978) non ha nulla da invidiare alle molto più famose Dorothea Lange e Margaret Bourke-White, di cui si può considerare antesignana. Figura non convenzionale iniziò a praticare professionalmente il fotogiornalismo già negli Anni ’10. Fu una delle poche donne a mantenere uno stretto rapporto con gli ambienti dell’avanguardia americana, sia a San Francisco con il Gruppo f/64 sia a New York con la Photo League. La povertà, le discriminazioni, il mondo degli afroamericani sono al centro delle sue attenzioni, l’impegno sociale e varie storie sentimentali la portarono però a volte a mettere in secondo piano l’attività fotografica. David Goldblatt (1930-2018) non ha bisogno di molte presentazioni: è stato uno dei più famosi fotografi del mondo capace di raccontare in modo straordinario la società sudafricana e i duri anni dell’apartheid.
Photoespaña offre come sempre anche l’occasione di avere il termometro dello stato delle cose nelle fotografia latino-americana e quest’anno alla Casa de America sono da vedere tanto la personale dell’haitiana Widline Cadet quanto la collettiva di giovani fotografi caraibici.