Firenze, Museo dell’Opera del Duomo, un museo dell’Opera come si deve (NdR)
Keith Christiansen
Verso il 1457-’58, quando viveva a Siena, Donatello scolpì un tondo della Madonna col Bambino per la cappella della Madonna delle Grazie in Duomo. Nessun artista fu più attento di lui alla collocazione delle proprie sculture e, in vista della posizione elevata dell’opera, concepì le figure emergenti da un tondo fortemente scorciato di sotto in su. Quando la cappella venne smantellata, l’opera fu spostata all’esterno della cattedrale e installata sopra la Porta del Perdono in testa al transetto meridionale. Il luogo non era più quello originario, ma la collocazione in alto rispettava il concetto visivo dell’opera. Quel posto – dove ricordo l’impressione che il tondo produceva in me studente, anche da lontano – è ora occupato da un calco (privo, ahimè, della policromia che anima l’intradosso), mentre l’originale è stato ritirato al Museo dell’Opera del Duomo, dove è esposto per essere visto da vicino.
Questo a mio avviso è un esempio estremo di disinteresse museografico per i caratteri estetici che fanno l’originalità di un’opera d’arte, anche se immagino che molti visitatori siano contenti dell’opportunità di vedere l’opera così da vicino. Lo stesso si può dire per le statue di Giovanni Pisano dalla facciata della cattedrale, a lungo esposte alle intemperie, che erano state concepite in modo tale che le teste esageratamente sporgenti e i gesti enfatici dei profeti e delle sibille, in un dialogo serrato fra loro, venissero inquadrate dalla piazza.
Opzione Timothy Verdon
È il dilemma museologico posto da opere come la Madonna delle Grazie di Donatello o i Profeti e le Sibille di Giovanni Pisano che Timothy Verdon ha cercato di risolvere negli spazi ambiziosamente riconfigurati nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, dove è stata ricreata la facciata della cattedrale, con copie delle opere installate al loro posto, mentre gli originali sono visibili a distanza ravvicinata. Ho l’impressione che in questo modo i visitatori si confrontino con le opere con maggiore intensità rispetto a una volta e che se ne vadano con una comprensione più profonda delle modalità con cui gli artisti hanno risposto (o non hanno risposto) alle particolarità di queste commissioni site-specific.
Soluzioni come questa richiedono spazio e una progettazione complessa, e sono enormemente costose. E non sono sempre appropriate. Il Metropolitan Museum possiede un angelo di Piero di Giovanni Tedesco proveniente dalla facciata della cattedrale e, dal momento che viene visto così isolato, lontano dal luogo per cui è stato concepito, non avrebbe senso mostrarlo alla sua altezza originale, al di fuori di un’ambientazione complessiva. Il massimo che si può fare è inserire nel cartellino una ricostruzione dell’insieme.
Problemi simili riguardano anche il modo di esporre i dipinti. La Crocifissione di Masaccio a Capodimonte, ad esempio, era il vertice di un polittico per il Carmine a Pisa e, come il tondo di Donatello, era stata concepita per essere vista di sotto in su. Se la si vede a livello degli occhi – come avviene nel museo – il Cristo sembra deforme e privo di collo, e le braccia tese della Maddalena ai piedi della Croce sembrano sgraziate. Naturalmente molte opere d’arte estrapolate dal contesto di origine non patiscono così tanto.
I due pannelli di Gerard David con l’Annunciazione nel Metropolitan Museum erano stati dipinti per il registro superiore di un polittico già a San Gerolamo della Cervara, vicino a Genova, ma il punto di fuga non tiene conto di tale posizione elevata. Ricordo anni fa un allestimento temporaneo alla Yale University Art Gallery di New Haven ideato da Creighton Gilbert. Tutte le fronti di cassone erano poste in basso, raso terra, i pannelli di predella erano all’altezza degli occhi, le cuspidi dei polittici su in alto. L’idea era apprezzabile, ma l’effetto risultava francamente bizzarro e probabilmente confondeva la maggior parte dei visitatori. Le gente è davvero così incapace di recepire un’informazione e ricreare mentalmente con la propria immaginazione?
Credo che la missione principale dei musei sia quella di aiutare gli spettatori nell’incontro con le opere d’arte, accrescendo la loro comprensione delle qualità intrinseche di quelle opere e delle sfide nuove che i loro autori affrontarono. Si tratta di un compito arduo, per cui non esiste una soluzione univoca.
Così per i criteri di allestimento. Ricordo il polittico della Misericordia di Piero della Francesca esposto in tre modi diversi a Sansepolcro. Quando l’ho visto la prima volta, nel 1970, credo che tutti gli scomparti fossero allineati all’altezza degli occhi. Poi vennero montati nella loro presumibile disposizione originaria, con un leggero accenno alla cornice che li doveva unire. Ora sono presentati entro una ricostruzione della cornice gotica perduta più assertiva e moderna. Resta il fatto che il polittico originale è stato smembrato e alcuni pannelli sono stati tagliati.
C’è poi un’ulteriore complicazione: tra le parti più belle ci sono i pannelli apicali con l’Annunciazione e la Crocifissione, mentre la predella è stata dipinta da un assistente inetto, Giuliano Amedei. Non sarebbe stato meglio allora limitarsi a mostrare una ricostruzione virtuale a lato degli originali, lasciando la possibilità di vedere da vicino le cuspidi, che non sono state concepite in funzione di una visione di sotto in su?
La luce, il finito/non finito
Conoscere la collocazione originaria di un’opera d’arte e le contingenze della sua commissione può essere essenziale anche per apprezzarne gli aspetti visivi. Talvolta abbiamo deformazioni intenzionali o accentuazioni che hanno senso solo quando l’opera viene vista da un’angolazione particolare. Per questo non meno importante è l’illuminazione.
Per Bernini, come per Tiepolo, le condizioni di luce in cui gli spettatori avrebbero visto le loro opere condizionavano la loro stessa concezione. E poi ci sono le questioni relative al «finito/non finito», in vari gradi perseguiti a fini espressivi in funzione della visione da lontano.
Donatello e Bernini sono tra gli scultori che si sono più preoccupati del modo in cui le loro opere sarebbero state percepite, ma lo fu anche un pittore come il Beato Angelico, la cui Crocifissione si intravvede fin dalla strada quando si entra nel chiostro di San Marco a Firenze, e la cui Annunciazione ancora sorprende i visitatori mentre salgono le scale del dormitorio. Non è più così per il Crocifisso dell’Angelico al Louvre, fuori contesto.
Che si tratti degli affreschi degli Eremitani di Padova o della celebre Camera degli Sposi a Mantova, Mantegna è sempre stato attento a interagire col riguardante. Il Cristo morto di Brera è stato concepito per provocare una forte emozione nello spettatore, che si sente in piedi sulla soglia di una camera ardente, guardando il cadavere e chi lo piange. Michelangelo può aver avuto un approccio più idealista che evitava le distorsioni per adattarsi a un punto di vista, ma quando affrescò la volta della Sistina cruciali furono per lui sia la scala delle figure sia le fonti di luce. Aumentò la scala delle figure man mano che procedeva e modificò la tavolozza per le figure in controluce.
Al contrario, Pisanello dipinse il San Giorgio e la principessa come se fosse poi possibile scrutarlo da vicino, mentre era altissimo sopra l’accesso della cappella Pellegrini in Sant’Anastasia, a Verona. La decisione di rimettere quest’affresco staccato nella sua sede originaria, dove gli infiniti dettagli non possono essere apprezzati nemmeno con un buon binocolo, mi sembra perversa. Sicuramente avrebbe avuto più senso mettere in opera una copia e presentare l’affresco nel museo di Castelvecchio, dove Carlo Scarpa applicò un punto di vista purista ormai anacronistico.
Tra le pale d’altare che risentono di più della loro musealizzazione per me ci sono quelle che hanno perso delle cornici importanti, parti integranti della loro concezione. Un caso limite è la pala di Bellini per San Giobbe a Venezia, che alle Gallerie dell’Accademia è esposta troppo bassa e soprattutto senza la mostra marmorea che Bellini incorporò come prosecuzione fisica della cappella dipinta in cui stanno le figure.
Tiziano e la monetina
C’è poi la questione dell’illuminazione. Ogni volta che vado a San Salvatore a Venezia per sedermi davanti all’Annunciazione di Tiziano, ancora nella mostra marmorea probabilmente disegnata da Jacopo Sansovino, cerco di vederla con la luce del mattino, per apprezzarla come parte integrante dell’interno della chiesa, e lascio cadere la monetina per illuminarla solo in un secondo momento. La luce artificiale altera completamente l’armonia dei colori. Tiziano – come Masaccio nella Cappella Brancacci o Caravaggio in San Luigi dei Francesi – non avrebbe certo mai pensato a come sarebbero apparse le sue opere sotto una forte luce artificiale.
Le guide turistiche di una volta indicavano il momento migliore della giornata per vedere le opere d’arte ed è compito di chi lavora nei musei resistere alla tentazione di illuminare le opere in modo eccessivo. Ma siamo onesti: viviamo in un mondo in cui i visitatori chiedono soprattutto condizioni di accessibilità ottimale e dove gli effetti della luce artificiale e i colori saturi delle pubblicità si contendono la loro momentanea attenzione.