“ Qualcuno di noi era illeggibile ma lottavamo contro un museo. E grazie agli articoli sui giornali ci guadagnammo pure”
di Valentina Desalvo
«Avevamo ragione noi, non eravamo degli sprovveduti. Il successo di pubblico non pensavamo di pretenderlo. Oggi lo posso dire: nei nostri cinque giorni a Palermo abbiamo mangiato, ballato, recitato, polemizzato, bevuto passito, preso il sole e naturalmente ci siamo presi gioco degli scrittori del tempo». Se avete nostalgia degli scrittori perduti, dei loro duelli e delle loro esuberanze, consolatevi con l’ultimo libro di Angelo Guglielmi: l’ha chiuso l’anno scorso, poco prima di morire, senza aver visto la copertina ma ripulendo le bozze fino all’ultimo. Si chiama “L’avanguardia in bermuda. La formidabile avventura del Gruppo 63”. E di quella storia, più della rivoluzione annunciata, più dei libri non proprio accessibili, restano le gesta e i nomi: Arbasino, Eco, Sanguineti, Balestrini, Giuliani, Anceschi, Barilli, Bonito Oliva, Patrizia Vicinelli, Celati, Manganelli e appunto, lui, il narratore. L’età media non superava i 30 anni e i bermuda, o meglio i boxer, elegantissimi, probabilmente li portava solo Arbasino.
Guglielmi, grazie anche al gran lavoro di Carmelo Caruso, giornalista del Foglio, che lo ha assistito nei ricordi e nella stesura, fa un racconto delle imprese spettinate di quella band di intellettuali che, con basi marxiste e strutturaliste, diventò una sorta di avanguardia punk della letteratura.
C’è molta Bologna, gli inizi di Guglielmi con Anceschi, e un coinvolgimento ironico nel rivedere quegli anni: da Zanarini, si legge, diventavano tutti professori, anche gli studenti come Guglielmi, e il Gruppo 63 oltre a fare «un pezzo di storia della letteratura» servì pure, dopo le giornate di ottobre a Palermo, ad avere «800 mila lire sul conto in banca, con il tfr», per merito degli articoli scritti da eversore della critica, quasi un secondo stipendio dopo quello della Rai.
Cosa fu davvero quella «comune definita gruppo» capace di unirescrittori, poeti, critici, architetti, artisti, musicisti, scorre nei ritratti sofisticati e nei litigiosi scambi, un tumulto appassionante, soprattutto pensando a quel è successo dopo.
Perché poco a poco le polemiche intellettuali vengono sbiadite dal galateo e i toni ambiziosi e feroci, quasi terroristici, diceva Balestrini, diventano rarissimi. Forse semplicemente non c’è più un luogo e un contendere, allora c’era di mezzo il romanzo italiano e la sprovincializzazione del paese.
Bullizzarono Cassola e Buzzati «le Liale della nostra letteratura», bollando così «romanzi vecchi con qualcosa di dolce per adescare il lettore». Lo fecero senza pentimenti: «forse oggi saremmo accusati di maschilismo»,suggerisce Guglielmi, ma d’altra Bassani pensò bene di sintetizzare la sua stima per il gruppo 63 con «nient’altro che entraineuse». E anche questo oggi non sarebbe ben visto. «Gli illeggibili, saremo stati chiamati. E qualcuno lo era. Ma noi lottavamo contro un museo», spiega Guglielmi. Il libro è uscito un po’ prima dell’anniversario che cade quest’anno, fortemente voluto dall’editore, Aragno. «Guglielmi non lo voleva fare – spiega Caruso – e mi diceva: sono tutti morti, sono rimasto solo io, non mi ricordo nulla, sono passati troppi anni…Poi si è convinto e ci hanno aiutato gli archivi del tempo e sua moglie».
Caruso confessa che come quasi tutti non ci aveva mai capito nulla del Gruppo 63 e nella postfazioneaggiunge che si voleva comprare una libreria, ragione sufficiente per accettare. E scoprire così l’intensità di quegli anni, durante i sabati passati, per quattro mesi, nella casa romana di Guglielmi, a scartoffiare e ripensare. Cercando una prosa adatta, un compromesso tra quella accademica, seria, con tante parentesi, note, glosse e quella giornalistica che Guglielmi definiva «nervosa». Il risultato è un testo agile, con molti aneddoti che rivelano l’ammirazione per Arbasino, per la sua cultura sterminata, la sua lingua gaddiana e la sua ferocia in Fratelli d’Italia dove «un’intera comunità venne smascherata nei suoi tic e dileggiata». Il libro di Arbasino è anche l’origine della rottura tra Bassani e Giangiacomo Feltrinelli, che lo licenziò dalla casa editrice di fatto per averlo rifiutato. C’è la passione per Eco, compagno ribaldo, ma anche lo sdegno, anni dopo, quando pubblicò “Il nome della rosa”: «Lo definiva un tradimento – spiega Caruso – perché dopo aver sostenuto la fine del romanzo a trama, il vero libro popolare l’aveva fatto lui, con un congegno perfetto». Guglielmi è orgoglioso di aver dato l’impostazione critica al gruppo 63 a Palermo, di esser stato il loro Anceschi, di aver normato gli irregolari. Ma anche per lui ci fu la nemesi del “popolare”, per le accuse alla sua Rai Tre: «gli fecero un processo, a cominciare da Cordelli, gli dissero che Rai Tre, con Fazio e Chiambretti, aveva portato alla vittoria di Berlusconi», continua Caruso. Resta sempre, in questo ultimo libro, la vena dello sberleffo che portò, ad esempio, al premio Fata, parodia dello Strega, assegnato a Pasolini, che solennemente spiegò i motivi della rinuncia. Tante ostilità, quelle di Sciascia, tanti abbracci, dal curioso Calvino, e solo qualche anno di vita ancora per restare nella storia: «chiudemmo nel 1967 a Fano. Senza drammi, ci avviamo verso la via del ricordo e della riconoscenza».