
Giocando per le strade di Brooklyn
4 Maggio 2025
Vivere da filosofo al tempo della paura
4 Maggio 2025Il 13 maggio 1948, Herbert Marcuse si rivolgeva al suo maestro con dure parole: «Caro signor Heidegger, per molto tempo non ho saputo se avrei mai risposto alla sua del 20 gennaio (…) Lei vi scrive che quel che ho detto sullo sterminio degli ebrei varrebbe anche per gli alleati, se si sostituisse “ebrei” con “tedeschi dell’Est”. Lei non si pone con questa frase al di fuori della dimensione in cui è realmente possibile un dialogo fra uomini – al di fuori del Logos?».
Insieme all’originale di questa lettera (nota dagli anni ottanta) e a molti altri importanti materiali, si conservano allo Herbert Marcuse-Archiv di Francoforte sul Meno ben trentatré conferenze, corsi e seminari di Heidegger. Marcuse li aveva metodicamente trascritti negli anni di studio a Friburgo, dalla laurea (1921) al dottorato (1922), e nel periodo dell’Habilitation, dal ’28 al ’32, quando aderirà invece all’Istituto di ricerche sociali di Adorno e Horkheimer e abbandonerà la Germania senza conseguire il titolo – pubblicando però, per i tipi di Vittorio Klostermann, l’importante e molto heideggeriano lavoro di tesi, cioè L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità. È proprio presso all’Istituto, e anche durante il trasferimento a New York, che saranno poi a lungo conservati i raccoglitori dallo straordinario contenuto: quelle lezioni che nel 1940, in una rassegna sulla filosofia tedesca contemporanea, Marcuse descriveva come «un vero rinascimento» negli studi sulla filosofia greca. E se già allora il primo e puro entusiasmo doveva virare nella più amara costatazione («la filosofia trovò poi rifugio nell’integrità “naturale” del sangue e del suolo»), è nello stesso spirito che, ormai ottantenne, egli consegnerà all’Erinnerung an Martin Heidegger (1977) la propria Delusione (Enttäuschung): «Fino al 1933 né io né i miei amici sapevamo o avevamo notato qualcosa del rapporto di Heidegger col nazismo (…) Liquidare il suo impegno (…) come un (breve) passo falso o un errore mi appare oggi una pretesa spudorata. Credo che un filosofo non possa permettersi un simile “errore” senza rinnegare la propria, vera, filosofia». Era, questo, il disinganno di chi leggendo Essere e tempo (1927) nel pieno declino di Weimar, quando «l’imminenza della catastrofe appariva ovunque evidente», si era trovato di fronte a un vero e proprio «nuovo inizio», e aveva poi vissuto «un’altra liberazione, questa volta “accademica”: l’interpretazione di Heidegger ci aveva offerto una nuova visione dei testi da lungo tempo irrigiditi della filosofia greca e dell’idealismo tedesco».
Ora, nel pur ricco lascito di Marcuse risaltano certamente – sia per la spiccata singolarità nel contesto dei rapporti di Heidegger col pensiero platonico, sia per la loro completezza, rispetto agli scarni appunti preparatòri pubblicati nel vol. 83 della Gesamtausgabe – le trascrizioni del Seminario invernale 1930-’31 e del seminario estivo 1931, oggi leggibili in prima edizione assoluta col titolo Il ‘Parmenide’ di Platone secondo gli appunti di Herbert Marcuse (testo tedesco a fronte, Morcelliana Scholé «Classici del Pensiero», pp. 126, € 16,00), grazie alle cure di Vincenzo Cicero, al quale si devono la Prefazione, la trascrizione del dattiloscritto e l’apparato critico, e di Niccolò Tucci, autore della versione e degli utili apparati (note, glossari, indici).
Si sa che lavorando al suo capolavoro Heidegger aveva ripreso la domanda di Agostino Quid est enim tempus? , e si era quindi rivolto ad Aristotele per cogliere nella Fisica, nel De anima e nelle Confessioni una «concordanza delle determinazioni essenziali» del problema della temporalità. Alcuni anni dopo, commentando per la prima e unica volta il tardo dialogo platonico, egli potrà invece affermare: «Il terzo corso del Parmenide è il punto più profondo fino a cui la metafisica occidentale sia mai avanzata. È l’avanzamento più radicale del problema di essere e tempo, che in seguito (da Aristotele) non è stato recepito, bensì eccepito». E poco prima: «L’antico problema dell’essere si è arrestato a questo punto!».
Sono espressioni certo notevoli, cronologicamente molto vicine e, a ben riflettere, forse solo apparentemente lontane da quelle celebri sull’essenza ambigua della verità in Platone (svelatezza e correttezza). Tali sarebbero comunque le conseguenze di questo arresto o sospensione, che la filosofia moderna da Leibniz a Hegel costituirebbe un unico, ripetuto tentativo di sciogliere l’aporia aurorale dell’uno e dei molti: sia con la monade, sia in Kant con l’«io penso» quale fondamento dell’unità, sia infine con l’«auto-uguaglianza nell’esser-altro» della Fenomenologia dello spirito. Già la risposta del giovane Platone al «cos’è l’essente in quanto tale, che cos’è l’essere?» nascondeva infatti la questione altrettanto decisiva, e insidiosa: se l’essere è l’idea, «come può l’essere in quanto uno (éidos) essere presso i molti (essenti)?». Come può l’idea – che è una e fra tutte unica – avere non solo i caratteri dell’unità numerica e dell’unicità esclusiva ma anche quello dell’«unità unificante» del molteplice? Come può cioè il tenore unitario, di hen, dell’essere, appartenere ai diversi essenti?
La soluzione del Parmenide risiede come si sa nella teoria della metessi (la partecipazione degli enti sensibili alle idee), e quindi del mutamento (metabolé) e del tempo: l’uno e il molteplice non sono in contraddizione poiché essere significa mutare. L’essere è cangiante, ed è uno poiché è l’una e l’altra cosa, in moto e in quiete. Dunque è prima una cosa poi l’altra? ora mobile poi fermo? No, certo, l’unità sarebbe così divisa e perduta. Ma è anche vero che un tempo in cui si può stare insieme fermi e in movimento, non essere ciò che si è e viceversa, non esiste. Il cambiamento, quindi, non è nel tempo. Ciò che muta, osserva Heidegger, muta piuttosto nel senza-tempo: irriducibile a un intervallo, non misurabile, la metabolé è exáiphnes, cioè l’«attimo (Augenblick)», improvviso e impossibile da trattenere, nel quale l’essere sempre imprevedibilmente trapassa. L’exáiphnes non è un’estensione, non è una durata, né breve né eterna, e il mutamento non si limita a un lasso di tempo perché è l’essere o «il tempo stesso».
Ora, proprio qui, dove ci si aspetterebbe il più ricco sviluppo, il pensiero di Platone tocca l’estrema difficoltà. La conclusione del Parmenide è appunto aporetica, e anche questo è ben noto. Tanto più sorprendente apparirà allora l’esegesi heideggeriana, che non prende un’altra strada ma trasforma genialmente lo stesso punto di arresto in un nuovo, vero inizio. L’idea dell’attimo (questa flessione platonica dell’Augenblick di Essere e tempo) custodisce infatti in sé la formula della non-conclusione. Se nella sua imponderabile istantaneità l’essere non fa che mutare, la partecipazione degli enti sensibili alle idee non avrà mai il tenore stabile del possesso. Coerentemente, dunque, il Parmenide «non conduce a nulla», a nessun risultato definibile in una proposizione. E proprio questa mancanza di fine o di misura, annunciava Heidegger aprendo il primo seminario, è ciò che «dobbiamo sopportare». Essa riguarda in effetti l’esistenza del filosofo: il quale è uno, dialogante con i molti, e – come l’éidos tiene in sé la pluralità – può trovarsi con i suoi allievi e interlocutori in accordo e in contrasto, o in una situazione di reciproco fraintendimento. Il che è così vero che un giorno potrà anche rinnegare la propria filosofia, e porsi al di fuori della stessa possibilità del dialogo, al di fuori del Logos.