
Soggettività e solitudine nell’epoca della connessione
1 Luglio 2025Nel 1927 Martin Heidegger pubblicava Essere e tempo, un’opera che ha lasciato un’impronta profonda sulla filosofia del Novecento. Un testo difficile, denso, che non cerca risposte immediate ma obbliga a riformulare le domande. Oggi, nell’epoca dell’intelligenza artificiale e della tecnica che organizza le nostre vite, quelle domande tornano a interrogarci. Che cos’è, in fondo, l’essere umano? Qual è la sua differenza irriducibile rispetto a ciò che può essere costruito o programmato?
Per Heidegger, la differenza fondamentale non è la razionalità, né la capacità di apprendere, né l’uso del linguaggio. La vera frattura sta nel rapporto con la morte. L’essere umano è l’unico ente che sa di dover morire, che vive nel tempo come in una tensione tra un inizio e una fine. Questa consapevolezza lo rende libero, responsabile, ma anche fragile e inquieto.
La macchina non conosce la fine. Si accende e si spegne. Il suo tempo è ripetibile, reversibile, potenzialmente infinito. L’uomo, invece, abita il tempo come un destino. Ogni scelta è irripetibile, ogni istante carico di senso. È per questo che l’angoscia, la noia, l’urgenza, il desiderio, non sono effetti psicologici: sono forme del nostro essere finiti.
Sapere di dover morire significa anche avere una storia. Non solo eventi cronologici, ma una traiettoria irreversibile, che costruisce chi siamo. Le nostre scelte non si cancellano. I nostri errori non si possono ripetere in modo neutro. Ogni esistenza è un irripetibile intreccio di tempo, luogo e responsabilità.
Proprio qui si apre una delle pagine più controverse del pensiero heideggeriano: la sua adesione al nazionalsocialismo nel 1933. Non si trattò semplicemente di un calcolo accademico o di una leggerezza ideologica. Heidegger vide in quel momento una possibilità storica di risveglio dell’essere. Una Germania spirituale, pensante, erede della Grecia, che potesse fondare un nuovo inizio.
È lecito chiedersi se Heidegger non abbia visto in Hitler ciò che Hegel intravedeva in Napoleone: una figura storica che incarna uno snodo decisivo del tempo. Ma mentre Hegel riconosceva in Napoleone la razionalità dello Stato moderno, Heidegger si illude che il Führer rappresenti un evento originario, capace di spezzare l’oblio dell’essere.
L’errore fu catastrofico. Non solo per le sue conseguenze storiche, ma per il modo in cui un pensiero che pretendeva autenticità si consegnò al peggiore degli inautentici. Heidegger non si limitò a partecipare: giustificò, teorizzò, e in parte mantenne il silenzio anche dopo. Più che una colpa politica, fu una cecità filosofica.
Dopo la guerra, Heidegger parla di svolta (Kehre): abbandona l’analisi dell’esistenza individuale e si rivolge al linguaggio, all’essere che si ritrae, che non si lascia più afferrare. Il pensiero non deve più dominare, ma attendere. È una rinuncia alla pretesa moderna di controllo. Ma è anche un ripiegamento, un modo per evitare il confronto diretto con le proprie responsabilità.
Una delle intuizioni più durature di Heidegger riguarda il rapporto con la tecnica. Essa non è semplicemente un insieme di strumenti, ma una forma di visione del mondo. La tecnica impone: organizza, dispone, riduce tutto a risorsa. E nel farlo, ci trasforma. Non è più l’uomo a dominare la macchina: è la macchina che plasma l’uomo.
Questa idea ha avuto un’enorme fortuna. Ma troppo spesso è stata banalizzata. Dichiararsi “vittime della tecnica” è diventato quasi un luogo comune, usato per giustificare ogni forma di deresponsabilizzazione. Ma Heidegger non voleva liberare da colpe: voleva mostrare il modo in cui l’essere si ritrae in un’epoca in cui tutto diventa calcolo.
Purtroppo, gran parte della ricezione del pensiero di Heidegger è avvenuta attraverso scorciatoie, semplificazioni, traduzioni infedeli. In Italia come altrove, manuali scolastici e divulgatori frettolosi hanno ridotto il suo pensiero a formule vuote: l’autenticità come carattere, l’angoscia come stato emotivo, il tempo come soggettivismo esistenziale.
Figure come Dagusin, simbolo di una filosofia digerita e scolastica, hanno trasformato un pensiero radicale in una sequenza di definizioni da test. Ma Heidegger non si può riassumere. Né lo si può separare dalle sue contraddizioni.
Heidegger ci obbliga a pensare la nostra epoca. A capire che la tecnica ci cambia perché noi ci lasciamo cambiare. Che l’intelligenza artificiale non è il problema in sé: il problema è se siamo ancora in grado di distinguere chi siamo da ciò che costruiamo.
L’uomo non è un telefonino. Non si accende e spegne a comando. Non si programma. Non si duplica. È un essere per la morte, che abita il tempo come un destino, e il mondo come una domanda. Questo non ci rende superiori. Ma ci rende responsabili.
Perché l’alternativa alla filosofia non è l’ignoranza, ma l’obbedienza.
E l’obbedienza cieca – a un’ideologia, a una macchina, a una lingua senza pensiero –
è ciò che rende possibile ogni catastrofe.
(P.P.)