LA RESA NON È A TESTA BASSA
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Nel giro di 72 ore si sono sgretolati 53 anni di dittatura: «La prima volta nel 2011 la gente è scappata pensando di tornare dopo poco e, invece, è stata via un decennio. Stavolta sono partiti con un nodo alla gola, convinti di dover affrontare un lungo esilio. Ma la battaglia è finita prima di cominciare»
Inviata a Homs
«Prepariamoci a celebrare con una grande festa il passaggio dalla morte alla vita. La sua luce splende già alla fine del tunnel in cui siamo immersi. Questa è la mia speranza per la Siria». Le parole, incise in arabo sulla lastra grigia, sotto la foto del volto assorto di Frans von der Lugt, hanno acquistato un altro suono da due settimane. Per dieci anni e otto mesi erano rimaste quasi in silenzio, soffocate dalla morsa della repressione seguita al boato di guerra degli oltre mille giorni di assedio. Un’era impressa a fuoco sulla pelle lacerata di Homs, come si vede dalla successione di edifici senza pareti, scheletri di case, interi isolati inceneriti dalle bombe incendiarie, macerie mai rimosse lasciate a ostruire le carreggiate. L’aviazione si accanì perfino sulle antiche mura e sui mercati storici del centro. Più ancora della distruzione, però, gli abitanti della più estesa città siriana, ricordano la fame, la sete e il freddo a causa del blocco imposto dalle forze del regime.
Nessuna pietà per la “capitale della rivoluzione”, la prima a imbracciare le armi contro la dittatura dopo il massacro di almeno duecento manifestanti pacifici il 19 aprile 2011. Un’agonia raccontata giorno dopo giorno al mondo via Internet o telefono dal gesuita Frans, l’unico sacerdote e l’unico straniero – era nato in Olanda nel 1938 – a scegliere di rimanere per accompagnare, testimoniare, denunciare, a costo di risultare scomodo all’una e all’altra parte. Fino a quando, il 7 aprile 2014, un uomo dal volto coperto lo assassinò con due proiettili alla testa nel complesso della chiesa di Saint Francis Regis, rifugio per i sopravvissuti di Bustan al-Diwan, nel quartiere di Hamedia, il più colpito. Sempre meno. Alla fine c’erano solo una ventina di malati e invalidi, troppo provati per andare via. Appena qualche settimana dopo ci sarebbe stato l’accordo di resa tra esercito e ribelli: un passaggio sicuro a bordo di bus verdi messi a disposizione delle Nazioni Unite in cambio dello sfollamento di massa a Idlib, roccaforte – jihadista – dell’insurrezione. Non sorprende, dunque, che il 5 dicembre scorso, quando i miliziani di Hayat Tahrir al-Sham (Hts) sono entrati senza troppo sforzo ad Hama, a Homs, 45 chilometri più a sud, si sia scatenato il fuggi fuggi generale nel terrore di una nuova, feroce, interminabile battaglia. La profezia di pietra del gesuita martire sembrava dover attendere, ancora. Poi, d’improvviso, il tempo ha accelerato. E nel giro di 72 ore si sono sgretolati 53 anni di dittatura. «La prima volta, nel 2011, all’inizio della guerra, la gente è andata via pensando di tornare dopo poco e, invece, è stata via un decennio. Stavolta sono partiti con un nodo alla gola, convinti di dover affrontare un lungo esilio. Mi sono detto: ora è il mio turno di essere testimone e di stare accanto a quanti non possono scappare nella furia della battaglia – racconta Tony Homsy, confratello e successore di padre Frans –. Ma quest’ultima è finita ancora prima di cominciare. I residenti,
dunque, contro ogni previsione, sono tornati in una manciata di giorni. E non solo chi era qui prima dell’8 dicembre. Stanno rientrando tantissime famiglie di profughi dal nord e dal resto della nazione ». Soprattutto da Idlib come si nota dalle targhe delle auto. E dal via vai – di persone di ogni fede – al giardino della parrocchia dove riposa il sacerdote. «Era una sepoltura temporanea, nel caos di quei giorni. Poi ab-biamo pensato che doveva rimanere in questo luogo che si era rifiutato di abbandonare, come segno profetico. E, così, è stato – prosegue padre Tony –. Arrivano in molti a “salutare” Frans, a ogni ora, dato che il complesso è sempre aperto, come voleva lui. Uno mi ha detto: sono venuto prima qui che a visitare la tomba di mio fratello». Il sogno scritto sulla sua lapide torna a parlare con forza a chiunque lo legge. La Siria del dopo-Assad intravede finalmente un bagliore al termine del tunnel interminabile della dittatura e della guerra civile? «Sono ottimista. Il Paese e il suo popolo hanno un’altra opportunità. Prima, l’unica scelta dei giovani era partire all’estero. Parte della comunità cristiana è preoccupata dalla matrice jihadista di Hts. I segnali dati finora, però, sono positivi. Credo che, però, molto dipenda da noi. Troppo a lungo siamo stati “insipidi”. È giunta l’ora di essere sale, come ci esorta Gesù. Sale di questa nuova era che dobbiamo contribuire a costruire».
Nel frattempo, a Homs la grande festa del reincontro tra le famiglie spezzate dalla guerra. A Baba Amr – il quartiere islamico svuotato dei residenti dall’offensiva dell’esercito, a mo’ di monito per i dissidenti – c’è di nuovo movimento. «Va tutto meglio, anche gli affari», dice Ali, 48 anni, dal banco di un piccolo negozio. Nella via c’è l’acqua corrente, l’elettricità, però, solo di tanto in tanto. «La situazione si stabilizzerà, piano piano. Vedere la gente camminare per strada, senza paura, è già incredibile. Potevano prenderti in qualunque momento e non tornavi più». La piazza dell’Orologio è affollata all’inverosimile. Ancora, a quasi due settimane di distanza, la gente si raduna con le bandiere della ribellione e si scatta selfie nel luogo dove, nel 2011, iniziarono le proteste, in contemporanea con Daraa, nel sud. Zahir, 23 anni, invece, sta chiuso nella camera in cui vive, nel quartiere di Jub al-Jandaly, non lontano dal centro. L’8 dicembre era in servizio militare nella caserma di As-Suwayda, vicino a Damasco, quando la struttura è stata circondata. «Non sapevamo cosa fare. Nessuno ci aveva dato degli ordini né ci aveva detto della fuga di Bashar al-Assad. Eravamo pochi, non potevamo combattere. I ribelli ci hanno lasciato uscire purché deponessimo le armi, così abbiamo fatto. Solo quando eravamo in viaggio verso la capitale, abbiamo scoperto la verità». Zahir è stato nell’esercito per quattro anni e mezzo. Quasi il doppio del periodo richiesto. «È duro fare il soldato – aggiunge –. I superiori ti maltrattano, il cibo è immangiabile. Tutto si paga, perfino l’acqua. E, soprattutto, non sai mai quando finirà. Hts è disposta a reintegrare i militari che facciano richiesta. A Homs, come a Tartus, Lattakia e Daraa, sono stati aperti uffici per presentare richiesta». Zahir non lo farà. Vuole solo finire la facoltà di filosofia. Il fratello Shauki, 30 anni, invece, ha già preso la laurea in Letteratura inglese. «E sa come vado avanti? Facendo ripetizioni a un euro all’ora. Sono troppo impegnato a sopravvivere per pensare al futuro». La Siria scruta ansiosa il fondo del tunnel nella speranza che il bagliore non si spenga.
440
i chilometri quadrati nel sud della Siria occupati da Israele: in particolare il bacino di Yarmouk e la diga di al-Wehda, al confine con il Libano
10
gli anni inflitti da un tribunale tedesco a Ahmad H., 47 anni, era arrivato in Germania nel 2016: era accusato di crimini contro l’umanità durante il regime