segue dalla prima paginaErano usi a obbedir tacendo, da quel fatidico 25 settembre 2022 che consacrò la Diva Giorgia prima donna premier e promosse i suoi Fratelli nuovi padroni della Nazione. Ma ora, supportati dai figli maggiori del Cavaliere, i due alleati minori della coalizione hanno battuto un colpo. Come già successe ai tempi di Gianfranco Fini e Elisabetta Tulliani, Marina e Piersilvio hanno armato il manganello televisivo di Antonio Ricci, e Salvini e Tajani hanno approfittato del momento di debolezza di Meloni per prendersi una rivincita. E l’hanno fatto su una legge di bilancio confusa, contraddittoria e pasticciata, come non si vedeva neanche dall’era turbo-populista del Conte Uno gialloverde. Per non perdere la faccia e il consenso nella rincorsa alle europee dell’anno prossimo, i due vicepremier hanno cercato di ridurre i rispettivi danni. Il Capitano leghista porta a casa giusto un lieve ammorbidimento della stretta sulle pensioni, che tuttavia per somma nemesi resta saldamente ancorata ai criteri “montiani” fissati dall’odiata legge Fornero. Il Capo forzista porta a casa la rinuncia ai pignoramenti automatici dell’Agenzia delle Entrate sui conti correnti dei contribuenti sottoposti ad accertamento fiscale e forse anche all’aumento della cedolare secca sugli affitti”.
Nulla di contro-rivoluzionario, intendiamoci. La figuraccia rimane, soprattutto per chi, come il leader del Carroccio, in campagna elettorale era ingrassato spacciando Quote 41 e condoni a pioggia. Ma è il segnale politico che conta. E riflette l’avvio di una “fase due” della maggioranza, dove tra fratelli-coltelli e parenti-serpenti nessuno si fida più di nessuno, incubano miasmi e veleni, si consumano vendette incrociate. Dallo stop alla riforma Nordio sulla prescrizione al rinvio del decreto energia, dall’aumento del tetto pubblicitario per la Rai alla fuga dalle aule parlamentari sul decreto Caivano. Nulla è più chiaro, nulla è più certo, di qui al voto del giugno 2024. Con buona pace della stessa Meloni, che a Bruxelles è costretta a ripetere “non ho nessun problema con Mediaset e con gli alleati”, “la maggioranza è compatta”, “governeremo altri quattro anni”, mentre in Parlamento continua a combattere contro i mulini a vento, a inveire contro i soliti giornaloni che le riversano addosso “una cattiveria mai vista” e i misteriosi poteri forti che la “vogliono indebolire”. Prende di petto pubblicamente gli esponenti delle opposizioni: grida “vi vedo nervosi” (e magari lo fossero: qui ci sarebbe da aprire un discorso sullo stato pietoso dei rapporti tra Pd e Cinque Stelle, ma stendiamoci sopra un velo ancora più pietoso). Invece è lei che è nervosa e divisiva.
Oscilla tra autodifesa e aggressione. Prende sistematicamente a calci sui denti la metà del Paese che non l’ha votata, mentre parla sempre e soltanto al suo “popolo”, chiamandolo continuamente alle armi in una battaglia feroce ma del tuttoimmaginaria. Come se ogni giorno fosse l’anno zero di un’Italia rinata alla Storia solo grazie a lei e alla sua fiamma.
Come se ogni atto di governo e di sottogoverno — persino il più neutrale, come una nomina al Museo Egizio o alla Biennale di Venezia — fosse una casamatta del potere da espugnare e da sottrarre al nemico rosso e alla sua inafferrabile “egemonia culturale”.
Una cortina fumogena e ansiogena, punteggiata di “sorrisi orgogliosi” e sguardi rabbiosi, di “schiene dritte” e intemerate romanesche. In realtà, in parte legata alla natura psico-politica del personaggio, che neanche dopo un anno a Palazzo Chigi riesce a liberarsi dalla “sindrome dell’underdog”. E in parte sollevata per nascondere i problemi e i conflitti che pure ci sono e che covano, al di là della propaganda, dello storytelling e dei sondaggi. L’economia resta il nostro nervo scoperto, che questa sgangherata manovra-patchwork non cura ma aggrava. Capiremo cosa ci aspetta dai prossimi verdetti delle agenzie di rating a novembre e soprattutto dal giudizio della Commissione europea a dicembre. Ma intanto incassiamo un altro schiaffo dal Consiglio Ue, dove Meloni deve fronteggiare l’ennesima messa in mora sul Mes, l’ormai famigerato Fondo Salva-Stati di cui il governo italiano — in inspiegabile e insostenibile solitudine — si ostina a rifiutare la ratifica.
Una farsa che va avanti da mesi. E ormai è appesa soltanto al puntiglio della premier, che il 22 dicembre di un anno fa, nel solito e comodissimo salotto di Bruno Vespa, ripeteva con fiero cipiglio patriottardo “l’Italia non accederà al Mes, posso firmarlo col mio sangue!”. Ora, mettiamo pure da parte i toni vagamente fascistoidi, tra Starace che si butta nel cerchio di fuoco e Mussolini che si immola su “quota 90”: ma che possibilità reale ha di reggere, questa linea del Piave de’ noantri? Dobbiamo saperlo: nessuna. La Presidente del Consiglio rivendica da settimane la cosiddetta “strategia a pacchetto”, che a suo dire prevederebbe un negoziato complessivo in cui tutte le partite europee in corso si devono trattare e scambiare insieme: il Mes e il nuovo Patto di Stabilità, i migranti e il bilancio pluriennale con i fondi per l’Ucraina. È solo un altro specchietto per le allodole: i Ventisei non ne vogliono sapere di “pacchetti”, e l’Italia non ha costruito alleanze per sostenerli. E dunque, anche in questo caso, se vogliono limitare i danni i Fratelli d’Italia si sbrighino a ratificare il Mes. Pensate solo a come staremmo adesso se nel giugno del 2020, in pieno, Covid ci fossimo presi i 36 miliardi di prestito al 2 per cento per la Sanità che quel Fondo Salva-Stati ci metteva a disposizione. Altro che pronto-soccorsi allo stremo, altro che ospedali senza medici e senza infermieri. E invece niente. Oggi — come allora e come ai tempi di Maccari, Longanesi e Flaiano — i nostri patrioti sono sempre lì, che urlano felici e incoscienti “o Roma, o Orte!”.