Originali
Durante l’ora di pranzo, il duomo era chiuso. In una piazza confinante con un’area che assomigliava a un parco, c’era un chiosco dove vendevano salsicce e bevande. Mia moglie aveva voglia di una salsiccia dell’Est. Era scappata dalla DDR, dal suo Stato, molti anni prima, quando nel cuore di Berlino venne costruito il Muro, eppure, ogni volta che faceva i calcoli in marchi tedeschi o se, comprando qualcosa che costava poco, pensava di aver risparmiato, diceva ancora «valuta occidentale». Decantò le salsicce della Germania Est: «Hanno il sapore di una volta», al che io replicai: «Se non altro, qui non c’è puzza di curry».
Non parlavamo con nessuno. E nessuno parlava con noi. La nostra auto di fabbricazione svedese era parcheggiata correttamente. Non si vedevano panchine da nessuna parte. Speravamo di non attirare l’attenzione. Il tempo, lì, scorreva in modo diverso. Bloccato verso il futuro, permeabile verso il passato. Fin da giovane ho desiderato nascondermi in fondo alle scale, introvabile in tempi sempre diversi. Né la ristrettezza del bilocale, né la successiva vita nelle baracche del campo di prigionieri di guerra, né i bambini chiassosi, nessun rumore mi ha mai impedito di fuggire, ogni volta, dal presente. E presto mi ritrovai in altra compagnia. Li invitai, ed essi si presentarono. Su un foglio di carta, molte cose erano possibili.
Quando il duomo aprì, potemmo visitarlo solo in compagnia di una guida. Prima di tutto si scendeva nella cripta romanica, dopodiché il programma prevedeva il coro orientale, e infine veniva presentata, in tutti i suoi dettagli architettonici, la navata tardo-romanica. Eppure, gli unici ricordi che mi sono rimasti sono le spiegazioni, enfatizzate a voce alta, nel jubé del coro occidentale da una giovane donna in tailleur che si rivolgeva a noi due e ad altre tre coppie. Nonostante un leggero accento turingio, si esprimeva in un tedesco colto e parlava di preferenza al plurale: «Qui possiamo ammirare una testimonianza dell’architettura protogotica…» — «Dopo essercisoffermati sui rilievi in entrambi i lati del jubé, passiamo ora alle dodici statue dei fondatori…» — «E ora osserviamo la famosa coppia…» — Noi — un gruppo in cui solo due persone erano vestite alla moda occidentale — seguimmo le sue istruzioni.
Non appena torno indietro nel tempo, ricordo esattamente il momento in cui varcammo la porta del jubé occidentale per entrare nel coro e la delusione che provammo di fronte alla bassa statura delle statue che, stando alle illustrazioni di vari libri, avrebbero dovuto essere a grandezza d’uomo. Ora, al loro cospetto, si poteva vedere che erano rialzate su piedistalli, sotto baldacchini di pietra. Accade così con gli originali. Rappresentano solo se stessi. Fino ad allora eravamo stati tratti in inganno da fotografie ormai familiari che ci avevano impresso nella mente le figure di Konrad e di Gepa, di Hermann e della sorridente Reglindis, del cupo Thimo e del collerico Syzzo, di Gerburg e di Wilhelm, ma soprattutto del margravio Ekkehard al fianco della celebre Uta: monumentali immagini in pietra. Questo particolare fu notato anche da una delle tre coppie riunite intorno alla guida: «Sono molto più piccole di quanto pensassi…» Dovemmo rassegnarci alle dimensioni che ci trovammo davanti, oltre ai residui di colore che erano rimasti attaccati in modo irregolare sulle figure disturbando la percezione d’insieme della forma. Inutile il tentativo di immaginare le statue dei fondatori nella loro originaria policromia. Cercammo quindi di guardarle nella loro condizione attuale. Le spiegazioni esposte in una dizione chiara non tenevano conto né della scomparsa del colore, né dell’illusione delle immagini che, ben illuminate, erano state fotografate da un’angolazione sapientemente ricercata. L’acustica del coro occidentale conferiva a ogni parola un significato irrevocabile: «Le figure dei fondatori, disposte singolarmente o a coppie, così come oggi le vediamo, si trovano in questo luogo dal 1250, con l’eccezione della statua di Konrad, che cadde dal suo piedistallo nel 1532 durante un incendio doloso, in cui presero fuoco gli stalli del coro, e che fu ricollocata al suoposto solo in un secondo momento utilizzando, in modo inadeguato, alcune parti che si erano salvate. Si tratta di opere provenienti dalla bottega di un maestro anonimo, nello stile appartenente al protogotico, anche se il drappeggio realistico delle pieghe delle vesti non corrisponde alla maniera artificiosa di quel periodo…» La nostra guida declamava il suo testo in modo talmente convincente che sembrava stesse raccontando quella storia per la prima volta. Fummo condotti lungo il lato sinistro del coro. Una lieve, ma percettibile pressione — dal tono leggermente professorale — evitò che ci allontanassimo dal gruppo o ci soffermassimo davanti alla famosa e ammirata coppia, celebrata in innumerevoli interpretazioni. Ci trovammo di fronte alla figura di Gerburg senza corona e di Konrad, la statua che un tempo era crollata. Mentre guardavamo Hermann e Reglindis incoronati, sentii una delle coppie del nostro gruppo sussurrare: «Guarda, ha lo stesso sorriso di tua sorella Elvira, un po’ beffardo». «Sì, è vero, proprio come la nostra Elvira».
È probabile che questo bisbiglio non fosse sfuggito alla nostra guida: «Guardando le figure dei fondatori si sarebbe portati a vedere in loro un’espressione naturale, quasi fossero presi dalla realtà. Può essere, ma non dobbiamo dimenticare che questa cosiddetta verosimiglianza corrisponde solo al nostro sentimento soggettivo e non dovrebbe mai costituire un criterio da applicare all’arte. È vero, però, che tutte le figure dei fondatori hanno una loro peculiare individualità. Ed è per questo che esercitano su di noi un effetto così immediato. Li sentiamo come nostri pari, ma in realtà appartenevano al ceto dominante, cosa di cui per altro sembrano essere ben consapevoli, soprattutto per quanto riguarda il margravio Ekkehard II e la moglie Uta, come avremo modo di vedere tra poco. Persone di potere della loro epoca. Ekkehard: bellicoso, sempre alla ricerca di nuove terre, il terrore dei sudditi, pronto a opprimere con intransigenza i vicini popoli slavi a est del Saale. Si dice che abbia addirittura ucciso un principe sovrano. Ma i grandi artisti, come il nostro Maestro di Naumburg, riescono, come possiamo ammirare, se non a eliminare le differenze di classe, a farle apparire permeabili».
Finalmente ci trovammo di fronte alla coppia di tutte le coppie. La nostra guida abbozzò un lieve sorriso, quasi volesse assecondare la nostra impazienza: Ekkehard e Uta. Lei, come sempre, alla sua sinistra, con il volto coperto parzialmente dalla veste, risvoltata a destra. Il suo sguardo appare piuttosto distaccato, e il bavero rialzato, quasi a proteggerla, sembra suggerire il bisogno di ripararsi anche dal consorte. E infatti sentii subito qualcuno del nostro gruppo sussurrare: «Sembra piuttosto in collera con il suo vecchio, si vede che…» Ora, c’è da dire che le statue dei fondatori del coro occidentale del duomo di Naumburg sono state spesso oggetto di interpretazioni contraddittorie: Romanticismo, speranza di salvezza e numerose assurdità di carattere etnico durante il periodo nazista. Così, ad esempio, di Reglindis, che a seconda del punto di vista può sembrare sorridente, o addirittura sghignazzante, si dice che, in quanto figlia di un re polacco, mostri — come si può ben vedere — i tipici tratti slavi e che sorrida come una donna delle pulizie, mentre l’autentica, nordica Uta… E così via. In realtà, non sappiamo quasi nulla delle origini e delle vicende private dei fondatori. Molto è stato ipotizzato o addirittura affermato con certezza. Le voci su una relazione amorosa tra Uta e Wilhelm von Camburg, marito della fedele Gerburg, non si sono mai spente. L’unica cosa certa è che Uta proveniva dalla dinastia degli Ascani e che dal suo matrimonio con il margravio non ebbe figli.
La guida proseguì: «Non sappiamo quasi nulla dell’estrazione sociale delle figure dei fondatori. E che il Maestro di Naumburg conoscesse la tecnica di costruzione delle cattedrali francesi del suo tempo, come le sculture della cattedrale di Reims, barbaramente distrutta durante la prima guerra mondiale, non è che una congettura. Meglio quindi non perdersi nell’aneddotica, per quanto affascinante possa sembrare. Lasciamoci piuttosto trasportare dalla pura bellezza e dalla potente espressività di queste statue».
E così lasciammo che quella pietra scolpita agisse su di noi, o quanto meno eravamo disposti a farlo. Mia moglie, che davanti alle statue dei fondatori non aveva aperto bocca, si chiama Ute ed è nata quando il culto di Uta di Naumburg e del Cavaliere di Bamberg aveva raggiunto l’apice; intorno alla metà degli anni trenta, infatti, molte bambine venivano battezzate con il nome di Uta o Ute. Naturalmente, quando mi trovai di fronte alla donna con il bavero rialzato, non mi venne in mente di paragonare quella Uta con la mia Ute; entrambe, infatti, sono uniche nel loro genere, eppure già allora, quando durante il tour per la presentazione del mio libro facemmo una deviazione a Naumburg, la mia mente fu occupata da una serie di riflessioni che si rivelarono gravide di conseguenze.