Arnaud Desplechin, apparso trent’anni fa con La Sentinelle – una pellicola di vita, di morte, di ricordi – in questo nuovo film Spectateurs! (nei cinema francesi dal 15 gennaio) ci chiede quanto segue.

Ricordate il primo lungometraggio che avete visto e che vi piacque? Ce n’è uno (lo stesso o un altro) di cui potete dire che è il film della vostra vita?

Vi capita di avere paura al cinema? E qual è la differenza tra i piani che vi danno la sensazione di precipitare in un buco nero o un pozzo e quelli che vi elevano, vi fanno ascendere nella luce?

Andate al cinema da soli? Con la persona che amate? In sala avete un posto, una fila che preferite? Vi andate per rivivere la vostra vita? Per infiammare le vostre illusioni? Per ritrovarle? Ne uscite in pace? Oppure in guerra con il mondo, i vostri simili, voi stessi? Vi capita mai di sgattaiolare fuori durante la proiezione?

 

“La Sentinelle” di Desplechin, una pellicola di vita, di morte, di ricordi 

 

I capolavori li guardate una volta? Più volte? Dall’inizio alla fine o a pezzi, come i libri?

Proiettate la vostra vita sullo schermo oppure è la vita altrui – del regista, dell’attore, del personaggio – che fate aderire e incorporate alla vostra?

Per voi il cinema è un modo di cambiare la vita o di comprenderla?

Che cosa succede alla realtà, una volta che è proiettata sullo schermo? E cosa è un mondo in cui vi sono tante immagini che sembrano non appartenere più a nessuno?

Vi siete annoiati guardando «Sussurri e grida»?

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Poi ci domanda ancora quanto segue.

È sufficiente l’occhio per girare?

Il cinema non è, prima di ogni altra cosa, una questione di memoria? O meglio, un «demone dell’analogia», come intendeva Mallarmé che «si filmava» mentre usciva dall’appartamento di Rue de Rome con l’impressione, dentro di sé, di «un’ala che scorre sulle corde di uno strumento» e che si ritrova, come in un’ellisse, davanti al negozio di un liutaio?

In quale film si possono vedere, come in Baudelaire, «giocolieri esperti che il serpente accarezza»?

Desplechin va troppo veloce oppure ho sentito bene, in contrappunto ad Accadde una notte, con Clark Gable e Claudette Colbert, un «usignolo piangere nella notte», eco di un verso di Verlaine?

“Ombre rosse”: John Ford filmava in piena luce «un popolo chiuso nell’ombra» 

 

Cos’è la vita cinematografica?

Perché l’attore che interpreta Desplechin bambino fa pensare all’Antoine Doinel di Truffaut? E sua nonna, Françoise Lebrun, a Berenice d’Aragona, molto dopo la morte di Aurélien?

Che differenza c’è tra un volto e un paesaggio? Tra coloro (Hirokazu Koreeda) che filmano i volti come paesaggi e coloro (Cimino) che filmano i paesaggi come volti?

E che dire del reale? Non della realtà, ma del reale? Il cinema non è stato inventato per i diseredati, gli oltraggiati, i vinti? Non ha dovuto, per questo, provarci due volte – Griffith e i volti indiani ignorati, poi John Ford che filmava in piena luce «un popolo chiuso nell’ombra»? E perché, naturalmente, Shoah di Claude Lanzmann è l’equivalente su pellicola della «Ricerca del tempo perduto» – e «ritrovato»?

“Shoah” di Claude Lanzmann è l’equivalente su pellicola della “Ricerca del tempo perduto” 

 

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Vedendo questo film si pensa a Élie Faure e André Malraux che, nelle rispettive «Storie della pittura», osano accostamenti quanto mai arditi, divagazioni molto poetiche, messe in scena, collegamenti nel tempo e nello spazio, la manipolazione, la frammentazione, la contrapposizione di opere tramite il montaggio.

Si pensa a Godard e al suo progetto, ispirato a loro, Faure e Malraux, di una storia filmata del cinema ma, attenzione! Non quella della fine, con i suoi grossi volumi Gallimard, troppo scritti, in tutta onestà, ma quella degli inizi, quando stava girando con Jean-Pierre Gorin, e poi nel suo libro del 1985, «L’Albatro», una storia «spettatoriale», strappata al demone della letteratura e che racconta il cinema dal punto di vista di uno spettatore o di un «montreur d’ombres», di immagini (e, talvolta, di cliché discutibili); oppure sì, invece, quella della fine, ma al momento del nostro film interrotto, con Claude Lanzmann, sull’impossibile rappresentazione della Shoah.

E per via, naturalmente, di Lanzmann; per via del posto che occupano, nella vita e nell’opera di Desplechin, l’opera e la vita di Lanzmann; per via del regista Lanzmann, ma anche dell’uomo Lanzmann, di cui Desplechin dice che è poco meno grande del primo; per via del posto, nella penultima scena del film, della sua vita lavorativa, «Shoah», arrivato troppo tardi per salvare i trucidati ma alquanto presto per accompagnarli nel limbo e rendere loro giustizia – come non pensare a Michelet che inventa una Storia tracimante non soltanto di risurrezione ma di vendetta dei popoli?

Per tutti questi motivi, voglio dire di Desplechin ciò che disse Louis Aragon uscendo dalla proiezione di «Il bandito delle 11», nel suo «Qu’est-ce que l’art», pubblicato ne «Les Lettres françaises»: questo film, «fisico fino all’anima e la mente», questa «sfilata di immagini» che, come i dipinti di Braque, è fatta di «citazioni e di collage»questa storia del cinema che fa la sua storia facendosi e in cui si piange la morte di Misty Upham come quella di Marilyn Monroe, è di una «bellezza che non si accontenta della parola bellezza per definirsi»: è un film travolgente.
Traduzione di Anna Bissanti

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