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L’analisi
di Massimo Gaggi
Washington fatica a incidere sul conflitto
NEW YORK Il leader turco Erdogan che rifiuta di incontrare il segretario di Stato Usa Antony Blinken, irritato per il sostegno di Washington a Israele. L’incontro del ministro degli Esteri di Biden col capo dell’Autorità palestinese della Cisgiordania che dura meno di un’ora: dialogo compromesso dal dissenso sul nodo chiave del cessate il fuoco. Il presidente degli Stati Uniti, unico alleato strategico di Israele, che lunedì incassa un altro «no» secco di Netanyahu alla richiesta, non di un cessate il fuoco, ma di momentanee pause umanitarie a Gaza. Dove, nonostante il Pentagono solleciti l’uso di armi meno distruttive e più mirate ai corridoi sotterranei di Hamas, continuano a piovere bombe da novecento chili, le più potenti dell’arsenale convenzionale israeliano, mai pensate per l’uso in una guerra urbana.
L’offensiva diplomatica americana sembra essere andata a vuoto: la superpotenza non riesce a ottenere una correzione di rotta dal Paese che sostiene con forniture militari per quasi 4 miliardi di dollari all’anno e subisce uno sgarbo dal leader di un Paese partner della Nato.
Joe Biden, convinto che sarà ricordato dai posteri per come ha cercato di riportare ordine nell’Occidente e nei rapporti internazionali dopo la tempestosa era Trump, deve prendere atto dei limiti della capacità americana di incidere in varie aree del mondo. Le fiamme mediorientali si aggiungono ai guai ucraini, l’altro conflitto che avrebbe dovuto definire la sua eredità politica internazionale. Biden ha difeso l’indipendenza di Kiev, rinsaldato i legami occidentali, rilanciato e allargato la Nato, costretto Putin a rinunciare alle sue mire imperiali, ma ora la guerra in Europa orientale è in stallo e la Casa Bianca è stretta tra Zelensky che rifiuta compromessi e un Congresso che fa sempre più fatica a votare pacchetti di aiuti militari senza vedere una strada che può portare alla fine del conflitto.
Impotenza
Pur sostenendo Israele con 4 miliardi all’anno di forniture militari,
non riesce ad arginarlo
In un mondo sempre più multipolare, con nuove potenze regionali spregiudicate (la Turchia che è nella Nato ma non sanziona la Russia, dialoga con Putin ma fornisce all’Ucraina droni da usare contro Mosca basati su tecnologie ottenute da Israele, ora nemico giurato) o pronte a servirsi di entità non statali (l’Iran che usa gli Hezbollah del Libano, gli Houthi in Yemen e, in parte, anche Hamas) per lanciare offensive «per procura», per l’America è sempre più difficile mantenere gli equilibri dell’ordine internazionale. Un ordine sopravvissuto al crollo dell’impero sovietico, ma ora fortemente danneggiato da due fattori: il progressivo spostamento degli equilibri verso l’Asia e il Sud del mondo e l’incapacità dell’Occidente di valorizzare, anche al suo interno, l’importanza di un ruolo planetario che non è solo economico, ma anche di stabilità legata al rispetto dei diritti umani e di valori democratici. Abbiamo cercato di portarli (con scarso successo) nelle società tribali, mentre oggi, anche a causa delle tecnologie digitali, andiamo verso la tribalizzazione delle società democratiche.
In un mondo così conflittuale e frammentato, per gli Usa (alle prese con alleati che dubitano della tenuta di Biden, mentre Mosca e Pechino attendono il ritorno di Trump) è importante, prima ancora che risolvere i conflitti, evitare la loro estensione e un coinvolgimento delle forze militari americane di stanza in Medio Oriente. Qui, pur in una fase molto negativa, gli incontri di Blinken coi Paesi arabi e l’Autorità palestinese possono aver dato un contributo ai tentativi di evitare che le mine innescate da Hamas per incendiare il mondo arabo deflagrino in modo ancor più violento.