Ferdinando Scianna
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25 Agosto 2024Da oltre un secolo, almeno dai tempi del citatissimo saggio di Oswald Spengler, si ipotizza il tramonto di un’area che coincide grossomodo con Europa (ma non tutta) e Stati Uniti (ma si allarga a Giappone e Oceania). Ora che negli Usa sembrano scontrarsi due idee di America e di rapporti transatlantici (fra Trump e Harris), ma forse non è proprio così, proviamo a indagare a che punto è il dibattito geopolitico e culturale. Con un occhio agli altri mondi: gli Orienti (quello vicino e quello cinese) e l’Africa
da Parigi Manlio Graziano
«Dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio»: questa massima popolare dovrebbe essere tenuta a mente da chiunque voglia capire quel che accade nel mondo. Infatti, come disse un primo ministro britannico dell’Ottocento, lord Palmerston, in politica internazionale non ci sono amici né nemici, ma solo interessi; chi si presenta come amico, deve essere trattato, come minimo, con sospetto.
Fingere amicizia, in politica internazionale, è un modo per ingraziarsi i favori degli altri allo scopo di promuovere i propri interessi. Un politico che credesse all’amicizia tra gli Stati sarebbe un inguaribile ingenuo oppure un cinico ipocrita; per Machiavelli, nel primo caso dovrebbe velocemente cambiare mestiere, mentre nel secondo soddisferebbe una delle condizioni indispensabili per diventare uno statista di successo.
L’«Occidente» come comunità di Paesi amici è una di queste finzioni. Lo è innanzitutto per la ragione esposta da Palmerston: è impossibile che Stati Uniti ed Europa (il cosiddetto «Occidente», appunto) abbiano gli stessi interessi; o che, nella stessa Europa, il Belgio e la Polonia, mettiamo, abbiano gli stessi interessi. Negli ultimi tempi, persino gli obiettivi di Francia e Germania — che dovrebbero essere il cuore e il collante del Vecchio continente — si sono sensibilmente divaricati, tanto da rendere palese a tutti l’insignificanza dell’Europa negli affari mondiali.
L’«Occidente» è talmente una finzione da essere stato spesso spostato sulla carta geopolitica. Nel 1923, il tedesco Karl Haushofer considerava «Occidente» l’Europa e la Russia, e «Oriente» gli Stati Uniti. Lo stesso anno, l’austro-giapponese poi naturalizzato francese Richard Coudenhove-Kalergi scriveva che l’Europa avrebbe dovuto unirsi per difendersi contro l’«Oriente» (la Russia) e contro l’«Occidente» (gli angloamericani). Nel 1945, un ministro di Stalin, Vladimir Potëmkin, affermava che il popolo russo aveva «preservato la civiltà occidentale contro la barbarie asiatica». Durante la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno giustificato la loro presenza in Europa con la «difesa dell’Occidente» contro la «minaccia russa». Negli anni Novanta, Samuel Huntington ha trasformato la nozione di «civiltà occidentale» in arma politica anticinese, facendola coincidere con la Nato — meno i suoi membri ortodossi e musulmani, più Australia e Nuova Zelanda.
Se il concetto politico attuale di «Occidente» è una finzione, come ha fatto a imporsi fino a diventare una categoria politica di uso corrente? Perché, come tutte le finzioni che sembrano vere, si basa almeno in parte su una realtà. Fernand Braudel, lo storico francese a cui Huntington si richiamava abusivamente, identificava la «civiltà occidentale» con la «civiltà industriale», cioè con quei Paesi che, in virtù della loro prima industrializzazione, erano riusciti a soggiogare il resto del mondo: in sostanza, Europa occidentale e Stati Uniti. Nella realtà, quindi, l’«Occidente» è il club di quei Paesi che in passato hanno dominato il mondo e i cui privilegi sono oggi minacciati dagli emergenti di più recente industrializzazione.
È dunque vero che le potenze «occidentali» condividono almeno un interesse, ma cruciale: cercare di difendere ciò che resta del loro vecchio ruolo egemonico nel mondo. Tuttavia, l’esistenza di un obiettivo comune non basta a farne un gruppo coeso perché, nella logica svelata da Palmerston, ciascun Paese pensa che siano soprattutto gli altri a doversi far carico dei suoi interessi. Ai giorni nostri, poi, nemmeno i più ingenui si fidano più dei loro presunti amici, constatando che la coperta della loro «amicizia» è sempre più consunta e che ciascuno tenta di tirarne quel che resta dalla propria parte. Così, l’immaginario «Occidente» si sgretola, consumato da recriminazioni e ripicche, e la tentazione di rivolgersi altrove si fa sempre più forte.
In chiaro: l’emergere di nuovi competitori — la causa principale del declino relativo di Europa e Stati Uniti — fa sì che le vecchie regole del gioco stiano diventando obsolete. Dal dopoguerra in poi, la crescita economica europea è stata resa possibile anche dalla protezione garantita dagli Usa, e l’influenza americana sul mondo è stata resa possibile anche dal controllo stabilito sull’Europa. Oggi, i conti non tornano più: lo sviluppo dell’Europa è sempre più fiacco, frenato dalle zavorre del debito e dell’inverno demografico; e l’influenza degli Stati Uniti sul mondo scema giorno dopo giorno. Gli europei accusano gli americani di volerli abbandonare nel momento del bisogno; gli americani accusano gli europei di giocare sporco quando si tratta di mettere un freno ai cinesi. A rendere ancora più fragile quel che resta dell’«Occidente» è che gli uni e gli altri dicono il vero.
Quasi quarant’anni fa, lo storico Paul Kennedy segnalò che, a causa del declino relativo degli Stati Uniti, «la somma totale dei loro interessi e obblighi globali è oggi [1986] molto più grande della loro capacità di difenderli tutti simultaneamente». Dopo decenni persi in vaneggiamenti su un «nuovo secolo americano», o addirittura sulla possibilità di rendere l’America great again, la classe politica di Washington ha faticosamente cominciato a trarre le debite conclusioni da quell’analisi.
Quando l’amministrazione Obama ha deciso di spostare alcuni «interessi e obblighi globali» verso l’area strategica dell’Indo-Pacifico, gli europei hanno capito che la protezione americana non era più garantita, cosa che poi Donald Trump si è premurato di confermare esplicitamente. Il capintesta della pattuglia pro-americana nel Vecchio continente, la Germania, lo ha riconosciuto con rammarico: il tempo «in cui potevamo fare pieno affidamento sugli altri», ha affermato Angela Merkel nel 2017, «è finito». Il capintesta della pattuglia anti-americana, la Francia, confermava con malcelata soddisfazione: «La Nato», ha detto Emmanuel Macron nel 2019, «è in stato di morte cerebrale».
La guerra russa all’Ucraina ha permesso all’amministrazione americana di rimettere in riga i riottosi «amici» europei, spezzando i loro legami con la Russia, e perfino di rivitalizzare e allargare la Nato. Ma si è trattato di una parentesi: l’erosione della capacità di Washington di tenere le redini della politica internazionale è un processo irreversibile, i cui sintomi più acuti, prima dell’aggressione all’Ucraina, erano stati la presidenza Trump e la catastrofica fuga da Kabul nell’agosto 2021. Gli effetti del regalo di Putin a Biden si sono esauriti con l’inizio della guerra a Gaza, quando gli Stati Uniti si sono mostrati incapaci persino di farsi ascoltare da Israele, che pure dipende in larga misura da loro per la sua esistenza. Siamo arrivati al paradosso che oggi Israele sembra condizionare la politica interna americana più di quanto gli Stati Uniti sembrino condizionare quella israeliana.
La strada è segnata, ed è improbabile che l’esito delle elezioni di novembre ne possa sostanzialmente modificare la direzione. In gran maggioranza, gli americani interpretano il declino della loro influenza sul mondo come effetto di un’offensiva esterna (della Cina, della Russia, degli immigrati, della globalizzazione), riuscita grazie a inettitudini o addirittura complicità interne (dei democratici, dei repubblicani, del deep State, dei «globalisti»). L’elettorato, schierato su due fronti apparentemente incompatibili, concorda però nel rivendicare un’America sempre più chiusa su sé stessa, ignorando che l’immensa ricchezza di cui ha goduto negli ultimi ottant’anni è stata resa possibile anche e soprattutto dalla proiezione egemonica sui mercati mondiali.
I due candidati alla presidenza devono pescare voti in quel serbatoio: non si vede quindi come la tendenza a ripiegarsi su di sé possa interrompersi. D’altronde, le misure protezioniste e anti-immigrazione dell’amministrazione Trump sono state confermate quasi interamente dall’amministrazione Biden, che ha anzi inasprito i toni anticinesi fino a caldeggiare il decoupling, il progressivo allentamento dei legami economici con la Cina da parte dei Paesi «amici» di Washington, provocando imbarazzo e fastidio tra quegli stessi «amici».
Beninteso, il ripiegamento su di sé (di cui il decoupling è una tappa) sarebbe una catastrofe per gli Stati Uniti: il Paese si impoverirebbe seriamente, e il resto del mondo sarebbe trascinato in un’inarrestabile spirale di caos nella quale anche gli Stati Uniti finirebbero aspirati. Ma la stragrande maggioranza degli elettori non ne è consapevole, e non è affatto detto che ne siano consapevoli i due candidati. Anzi.
Donald Trump e Kamala Harris si muovono dunque nella stessa direzione, ma con passo, stile e metodi diversi. Se eletta, è quasi certo che Harris confermi il multilateralismo dell’attuale amministrazione, mentre Trump dovrebbe tornare a un approccio più isolazionista, innanzitutto nei confronti degli altri «occidentali». Nel febbraio scorso, la sua promessa di incoraggiare la Russia a invadere i Paesi della Nato che «non pagano il conto» ha mandato in fibrillazione molte cancellerie, e rimesso in pista la storica velleità francese di mettersi alla testa di un’Europa «strategicamente autonoma» da Washington, sulla falsariga dell’auspicio di Coudenhove-Kalergi del 1923.
Non è possibile stabilire a priori cosa sarebbe più nocivo per gli «alleati occidentali». Non dimentichiamo infatti che il multilateralismo di Biden è servito a imbrigliare e dividere gli europei e a spingerli ad accodarsi agli interessi americani, mentre l’isolazionismo trumpiano li ha portati a cercare alternative agli Stati Uniti — con la più grande soddisfazione di Macron e con varie sfumature d’inquietudine di tutti gli altri.
Ma i giochi non sono ancora fatti. Non solo, ovviamente, perché si deve attendere l’esito delle elezioni, ma anche perché resta da capire in che condizione si trovi quello che Trump e i suoi sodali chiamano con disprezzo lo «Stato profondo», cioè quell’esercito di funzionari di carriera che, essendo almeno in parte immune dai capricci elettorali, dovrebbe garantire la continuità degli interessi americani, indipendentemente da chi sieda alla Casa Bianca. In questi ultimi anni, il compito di questo esercito si è fatto sempre più arduo; per di più, a novembre, la partita si gioca tra un candidato che non fa mistero di volerlo smantellare per sostituirlo con manipoli di suoi fedeli, e una candidata di cui è nota soprattutto l’inesperienza in politica estera, e che rischia quindi di finire succube proprio di quello «Stato profondo» per natura scarsamente sensibile ai cambiamenti dei paradigmi internazionali.
Comunque vada a finire, la finzione dell’«Occidente» ha i giorni contati: la partita si gioca ormai da decenni sempre più a Oriente, e chi resta impaludato in obsolete rappresentazioni ideologiche del mondo o, peggio, crede ancora che l’amicizia abbia corso legale nel campo della politica, non può che perdersi nella selva oscura, e burrascosa, delle relazioni internazionali.
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