The Fall of My Teen-Age Self
26 Novembre 2023Goya Scacco alla ragione
26 Novembre 2023di Valeria Crippa
«In scena sono uno dei Fiori in mezzo al gruppo storico di Balletto Civile: rappresentiamo diverse personalità che si esplicitano in una comunità destinata a sparire». Nelle foto scattate durante le prove da Jacopo Benassi che accompagnano (anche in una mostra interna; quattro in questa pagina) il debutto assoluto di Les Fleurs, dal 7 al 17 dicembre al Teatro Arena del Sole di Bologna, Michela Lucenti spunta al centro di un inquieto groviglio di volti espressivi e mani che si stringono. Coreografa, danzatrice e curatrice del focus di drammaturgia fisica Carne, Lucenti scava — alla guida di Balletto Civile fondato nel 2003 — nelle pieghe dolorose dei Fiori del male di Charles Baudelaire cercando, con licenza di trasgredire attraverso corpi borderline e testi originali del collettivo, una collisione liberatoria tra poesia e danza sulla partitura sonora di Guido Affini.
In una riscrittura scandita in nove temi (il poeta, la bellezza, il tempo, la noia, l’esilio, la rivolta, la ferita, la città e la poesia stessa), il bouquet di solitudini mostruose appassisce aspirando, però, al rango di una riflessione sull’essere artisti «ibridi» oggi. Come prologo dello spettacolo, i due attori Francesco Gabrielli e Ambra Chiarelli ricostruiscono le macerie della tempestosa storia d’amore tra Baudelaire e l’amante d’origine africana Jeanne Duval nella performance Déménagement.
Lucenti, perché solo «Les Fleurs»? Dov’è finito «du mal»? Il male è forse così pervasivo da non poter più estrarre da esso la bellezza come diceva Baudelaire?
«Per noi era importante affrontare Baudelaire ponendoci, come prima istanza, che lo spettacolo fosse una visione parziale di un universo infinito. Ci vorrebbero anni per lavorare su Baudelaire. Oggi il male è talmente connesso a tutte le nostre visioni che non ci è sembrato necessario rimarcare che si tratta di fiori malati. I fiori del contemporaneo contengono già il male: noi li raccontiamo cercando di fare uscire la bellezza».
I corpi in scena portano storie, testimonianze…
«Sì, mi servo della danza in modo provocatorio, pur rispettandola, per andare alla radice dell’atto teatrale. Abbiamo sempre cercato l’alleanza tra corpo e significato: la drammaturgia fisica non è tanto trovare il ponte tra danza e teatro, ma lavorare sul corpo come significato, simbolo narrativo. La poesia di Baudelaire è meravigliosamente attuale perché ognuno trova qualcosa cui agganciarsi, abbiamo fatto un grosso lavoro non solo sui Fiori del male, ma sulla prosa lirica delle città che ci ha fatto sviluppare un immaginario fisico il cui impatto è stato un geyser per i corpi. In più c’è l’assunzione di responsabilità dell’artista: noi come Balletto Civile ci schieriamo in quella zona teatrale in cui la danza è testimone e molto spesso raccontiamo storie cercando una complicità con il pubblico, come Baudelaire la instaura con il lettore. Balletto Civile ha undici danzatori ma qui in scena siamo in sette: di solito trattiamo temi sociali, attraverso il lavoro con gli anziani, i ragazzini, il carcere. Stavolta parliamo solo di arte e i Fiori sono gli artisti».
«Les Fleurs» nasce all’interno della rassegna «Carne», da lei curata, in risonanza con altri artisti.
«Valter Malosti mi ha chiesto di occuparmi della danza in una rassegna, come artista residente di Ert: invece di creare l’ennesimo festival in una regione come l’Emilia che ne è storicamente ricca, ho pensato a una rassegna che dura tutto l’anno per abituare il pubblico della prosa ad artisti che lavorano sul corpo. Perché la danza non va relegata nei contenitori speciali dei teatri di prosa. In Carne ci sono coreografi affermati, maestri, sconosciuti, performer, attori, artisti che lavorano sulla purezza della danza in sé, drammaturghi che scrivono copioni di scene mute. Senza avere la presunzione di diventare un manifesto, Les Fleurs è figlio di questa riflessione sul valore del corpo come testimonianza nel presente. Non è solo un discorso estetico, ma di comunicazione della danza».
Balletto Civile compie vent’anni: dagli inizi cos’è cambiato, cosa cercavate e non avete trovato?
«Mi emoziona il fatto che, a parte qualcuno, siamo gli stessi di allora. Stiamo invecchiando insieme come i Rolling Stones dopo aver condiviso un processo creativo, economico, decisionale in modo solido. In Les Fleurs siamo il gruppo storico e questo è un segno forte. Ci stupisce che l’Italia — con le maestranze artistiche e teatrali del livello dello Stabile di Genova da cui provengo — veda ancora il linguaggio spurio della danza come espressione minore rispetto alla danza canonica. Agli inizi speravamo che il nostro approccio sarebbe stato assimilato: oggi viviamo una seconda formalizzazione, un altro modo di essere “politicamente corretti”. Manca una vera libertà di sguardo in quello che lo spettatore può vedere, si continuano a incasellare gli spettacoli. Ciò che mi dà speranza è che invece il pubblico è prontissimo a recepire, molto più dei programmatori. Mi spaventano la politica dello scambio, il modo di incasellare le stagioni. Il viaggio libero nel corpo è ciò che rende la nostra compagnia “civile”, a contatto cioè con la “civitas”, con la complessità sociale che va costantemente riconquistata in un panorama teatrale in cui dominano le abilità individuali facilmente inquadrabili».
Fondamentali per lei gli incontri con il tanztheater di Pina Bausch e la ricerca di Jerzy Grotowski.
«Altrettanto importante per me è stato lo Stabile di Genova dove sono arrivata come danzatrice e diventata un’artigiana della parola, sempre come un’anima in pena, protesa verso il meticciato teatrale. Studiare duramente danza con Pina significava capire come sedersi su una sedia in un’azione teatrale».
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