di Maria Cristina Carratù
Per capire l’impatto reale dell’immigrazione, che va affrontata «alla luce dei fatti, non della propaganda», la logica dell’emergenza «è fuorviante». E quanto a chi teme la “sostituzione etnica’’, culturale e religiosa, il problema non è l’islam, ma «un cristianesimo impaurito». Parole chiare e forti, quelle del cardinale Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo metropolita di Siena Colle Val d’Elsa Montalcino, e vescovo di Montepulciano Chiusi Pienza, delegato per le migrazioni della Conferenza Episcopale toscana e membro della commissione per le migrazioni della Cei.
Nonostante un virtuoso modello di accoglienza diffusa, anche la Toscana soffre per gli afflussi incontrollati. Lei che clima avverte?
«Molto dipende dalla percezione dei fatti e da come li si gestisce.
A Roma dormono ogni notte all’aperto otto-diecimila migranti e nessuno ci fa caso, a Siena, molto più piccola, 4 o 5 pakistani in un giardinetto diventano un dramma sociale.
Certo, se ogni tanto i vigili vanno a dare un’occhiata, va bene, ma non sarebbe più utile parlarci, con quei ragazzi, di solito del tutto pacifici, attraverso qualche mediatore culturale?
E spiegare ai residenti che non è il caso di allarmarsi?
Casi come quello di don Biancalani a Vicofaro, che ha messo decine di migranti in chiesa, beh, sono pugni nello stomaco, anche rischiosi, ma smuovono le coscienze. Casi necessari, di cui raccogliere i frutti buoni. A volte, gesti fuori dalle righe testimoniano una forte volontà di risolvere problemi lasciati irrisolti, magari con l’alibi della burocrazia. Del resto, dopo dieci anni di ‘’bordate’’ di papaFrancesco, è chiaro dove lo Spirito Santo vuole vada la Chiesa».
Lo stato di emergenza non sembra risolvere alcunché, ma resta la parola chiave di questa fase, nelle politiche nazionali, europee, nonché, a ricaduta, locali.
«Sì, ma non siamo affatto di fronte a un’emergenza, bensì a un fenomeno strutturale. E in ognicaso paesi denatalizzati come il nostro dovrebbero implorarli, i migranti, di venire da noi. Mi chiedo perché non siamo in grado almeno di copiare le politiche di accoglienza di paesi come la Germania, dove, fra l’altro, la maggior parte di chi arriva in Italia vuole spostarsi: a fronte di un alloggio, di uno stipendio di sostegno, rigide regole da rispettare, pena l’allontanamento definitivo. Gli italiani si mobilitano come nessun altro in caso di catastrofi, ma non sanno gestire il lungo periodo, che richiede meno buonismo, magari, meno pressappochismo, e più politiche lungimiranti e coraggiose. E un serio dialogo con l’Europa. Il trattato di Dublino, che indubbiamente penalizza l’Italia, a parole non ci piace, ma ci ha garantito molti soldi, ed è ancora lì».
Sul coraggio di impostare serie politiche strutturali, sembra far premio l’utilizzo in chiave politica della paura.
«Conoscere i fatti evita strumentalizzazioni e propaganda, che parlano alla pancia delle persone. Per questo il mio impegno anche personale è di stimolare incontri, riflessioni, dialogo, e un costante lavoro di squadra con tutte le istituzioni, per studiare e trovare insieme soluzioni strutturali. È vero, alcune scelte ricalcano certi orientamenti politici, ma non mi pare che i governi si siano distinti, sull’immigrazione, in base al colore, basti pensare all’accordo con la Libia. Le ideologie valoriali, del resto, si sono perse, anche se qualche politico intemperante cavalca certi temi per costruire il proprio ‘’personaggio’’. In realtà, chiunque con un minimo di buon senso si rende conto che certi problemi richiedono soluzioni, non propaganda».
Come lo spauracchio della “sostituzione etnica’’.
«La verità è che viviamo un cristianesimo chiuso dal confronto perché indebolito. La paura dell’altro alberga in una fede fragile, solo di tradizione, mentre là dove è vissuta e nutrita, spiritualmente vivace, non solo non c’è paura, ma l’incontro con l’altro la accresce e consolida, e anima ogni genere di accoglienza».