Is the History of American Art a History of Failure?
13 Agosto 2023Felicia Kingsley Sante o puttane i soliti cliché che ci puniscono
13 Agosto 2023di Vincenzo Trione
Anno 2061. Sullo sfondo, un’America post-apocalittica. Sulla piazza, una lunga coda che, disciplinata, avanza. Piccoli gruppi sostano davanti alla Gioconda, sputano sul quadro, poi vanno via. «Perché lo facciamo?», chiede Tom. E Grigsby: «Ha a che fare con l’odio. Odio per qualsiasi cosa che appartenga al passato. (…) Non ci resta più nulla, se non fare festa distruggendo». L’epilogo è tragico. La folla fa a pezzi il capolavoro di Leonardo. Una distruzione che ha il valore di una metafora: evoca il potere e la ricchezza della civiltà occidentale e, insieme, il suo fallimento. Una violenza che si fa simbolo della forza inaudita delle opere d’arte, capaci di offrirsi alla venerazione ma anche all’oltraggio.
È la trama di un racconto di Ray Bradbury intitolato The Smile, pubblicato nel 1952, che anticipa atmosfere del romanzo Fahrenheit 451. Si tratta di una profezia che riprende e rilancia, su un registro distopico, la vocazione iconoclasta sottesa alle tante scorribande poetiche dei protagonisti delle avanguardie primonovecentesche, animati da gusto per l’anticonformismo; da desiderio di fare tabula rasa di quel che era stato costruito dai «padri»; da ricerca dello choc; da vocazione alla catastrofe e al suicidio. Primitivi di una nuova sensibilità, gli avanguardisti predicano la fine della prospettiva, la morte del chiaro di luna e di Venezia; demonizzano La Gioconda, dotandola di barba e baffi (come fa Duchamp); sferrano feroci attacchi contro i musei, dove bisognerebbe recarsi una volta all’anno, come si va nei cimiteri (è il j’accuse di Marinetti).
Per uno strano gioco di coincidenze, il secolo successivo si è aperto ancora nel segno dell’iconoclastia. Un’iconoclastia non letteraria ma reale, dolorosa, drammatica. 12 marzo 2001: l’esplosione dei Buddha gemelli di Bamiyan in Afghanistan. Nove mesi dopo, 11 settembre: l’abbattimento delle Twin Towers. Atti terroristici, dotati di una segreta, preoccupante carica estetica. Al punto che il musicista Karlheinz Stockhausen, con una certa enfasi, commentò l’attacco dell’11 settembre come «l’opera d’arte più grande di tutti i tempi». Eventi connessi, come aveva colto J. Otto Seibold, in un disegno apparso sul «New Yorker»: vi si vedono i Buddha ricostruiti in scala 1:1 al posto delle Torri Gemelle e le nicchie di Bamiyan riempite da due copie ridotte delle Twin Towers. Questa corrispondenza ha spinto a ritornare su convinzioni consolidatesi nei secoli: a lungo considerate come esperienze legate solo al radicalismo islamico ed estranee alla tradizione occidentale, le pratiche iconoclastiche, d’incanto, sono entrate a far parte delle nostre vite e della nostra quotidianità. Talvolta, in maniera eclatante. Più spesso, in modo clandestino.
Forse, è l’altra faccia del tempo del disincanto. Quasi un ritorno del rimosso. Episodi che, nell’accostarsi, portano a interrogarci sul lato più perturbante della nostra epoca. Indizi che aiutano a delineare i contorni di un fenomeno complesso e articolato, dietro cui si nascondono ragioni politiche, istanze ideologiche, inquietudini di massa, disagi esistenziali.
Iconoclastia barbarica
Sulle orme dei graffitisti e degli street artist, senza committenza, con modi barbarici, gli anonimi writer dipingono figurazioni iper-pop, con citazioni storico-artistiche e rimandi alla cronaca. Esercizi di un’arte pubblica, accessibile a tutti, improvvisata, ricca di assonanze con il rap, nata dal basso. Disseminate un po’ ovunque, queste decalcomanie spesso, attraverso il colore e la decorazione, ravvivano aree periferiche di quelle che Pasolini chiamava «le stinte città»; ma non di rado alterano il decoro urbano; e talvolta danneggiano in modo irreversibile architetture, muri, marmi e pietre.
Iconoclastia intenzionale
Piss Christ di Andres Serrano (1987). Una fotografia, che è stata accusata di oscenità, di pornografia. Un dozzinale crocifisso di plastica immerso in un liquido ambrato: l’urina dell’artista. La medesima carica blasfema si ritrova in Martin Kippenberger (1953-1997), del quale il Museion di Bolzano ha esposto l’opera dove il corpo del Cristo in croce è sostituito da una mostruosa e fumettistica rana verde. E in Jan Fabre, autore di una scandalosa rilettura della Pietà di Michelangelo: il Cristo ha il viso dell’artista stesso e la Madonna è trasformata in un teschio. In bilico tra appropriazione indebita e trasgressione, questi «immoralisti» vogliono trasgredire l’iconografia cattolica tradizionale, dimenticando, però, che «schernire la religione è una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione rachitica», ha ricordato Camille Paglia.
Iconoclastia nichilista
Napoli, Piazza Municipio. All’alba dello scorso 12 luglio, un ragazzo con fragilità mentali e comportamentali ha incendiato una monumentale versione della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, che è stata ridotta a un relitto combusto. Siamo oltre il vandalismo. È il falò della bellezza. La cancellazione dell’opera d’arte. Nel suo inaccettabile delirio, questo atto nichilista — riscritto da Luca Del Baldo nel dipinto iperrealista pubblicato in queste pagine — raggiunge quasi le vette del sublime, inteso come spazio del senza-limite e del senza-misura, evento che sospende i sensi e decreta l’incommensurabilità tra cosa e immagine.
Iconologia attivista
Nel 2021, durante le settimane delle proteste a New York per la morte di George Floyd, è stato hackerato il sito del Whitney Museum dall’anonimo artista che si fa chiamare American Artist: le riproduzioni delle sculture e dei quadri conservati nel museo — spesso esito di soprusi imperialistici — sono state sostituite con foto di assi di legno. Come se le opere fossero state imballate per proteggerle dai saccheggi.
Iconoclastia ideologica
In tutto il mondo, monumenti di politici o di dittatori vengono buttati giù o sbeffeggiati da militanti politici sorretti da velleitari istinti di rimozione storica. Un destino analogo è toccato alla statua di Indro Montanelli in un parco milanese: dapprima, imbrattata; poi, avvolta con nastro nero e giallo. Senza dimenticare gli sfregi ai danni del Colosseo, di Palazzo Madama, della Torre di Pisa e del Palazzo Vecchio di Firenze. E la recente bravata di una piccola gang di ragazzi mascherati e vestiti di nero, che lunedì sera 7 agosto hanno scarabocchiato i loro tag sul cornicione della Galleria Vittorio Emanuele, in piazza Duomo a Milano, eludendo ogni controllo e vigilanza. Infine, le uscite del collettivo Ultima Generazione o di Just Stop Oil: il lancio di colore su quadri di Van Gogh e di Klimt, i raid sulla facciata di Palazzo Madama e nella fontana della Barcaccia a Roma.
Sono, queste, facce diverse di una nouvelle vague ampia e plurale, che presenta alcuni elementi ricorrenti.
Gli iconoclasti contemporanei sembrano muoversi sulle orme degli animatori del luddismo, il movimento operaio attivo in Inghilterra all’inizio del XIX secolo, impegnato a reagire violentemente contro l’introduzione delle macchine, adottando, come metodo di lotta, la distruzione delle macchine stesse, causa principale della crescente disoccupazione.
Interpreti di un’iconoclastia light, priva di tragicità e di consistenza spiritualistico-religiosa, i luddisti dell’arte si fanno testimoni di un bisogno sempre più esteso di ribellione e di anti-perbenismo. Anti-spiritualisti, si prendono la libertà di abusare di qualsiasi simbolo visivo, che neutralizzano e privano di ogni aura. Con disinvoltura. Senza inibizioni, senza scrupoli.
Forse memori del Capaneo cantato da Dante — l’uomo che «fa le fiche a Dio» — questi profanatori si concentrano soprattutto su icone e su monumenti ampiamente conosciuti, contemplati, riprodotti e postati sui social. Fanatici di una fede intollerante, colpiscono quel che, in generale, è rispettato. Mistici che sembrano lavorare per conto della storia, mirano a secolarizzare e a desacralizzare riferimenti pittorici o scultorei giudicati intoccabili. Si scagliano contro ciò che siamo inclini a conservare, a tutelare e ad ammirare: lo aggrediscono, lo sporcano, lo abbattono. Con un’ambizione: disattivare e rendere inoperosa la funzione comunicativa delle opere «brutalizzate».
Sembra compiersi una sorta di transfer. Incapaci di creare, gli iconoclasti, in pochi istanti, feriscono a morte quel che altri hanno faticosamente dipinto o scolpito. Contagiati da una specie di sindrome di Stendhal, perciò, decidono di annientare le immagini che artisti storicizzati hanno progettato, costruito, modellato. Con una convinzione precisa: ciò che non si può fare, si può cancellare. Anche se, spesso, i vandali e le loro vittime condividono le stesse tensioni, le stesse esaltazioni, le stesse condizioni psicologiche.
Nascono così performance il cui centro generatore è rappresentato da una dimensione spiccatamente spettacolare. Che produce effetti paradossali. La violenza non solo uccide: ci fa anche rivalutare ciò a cui eravamo assuefatti. È quel che ha sottolineato Salvatore Settis: «Quando si indirizza su un’opera d’arte, l’azione distruttiva dell’iconoclastia ne riafferma di fatto il duraturo potere, che dalla devastazione e nonostante la devastazione può perfino risultare accresciuto».
Come misurarsi con la perversa ebbrezza del «fare festa distruggendo» (per dirla ancora con Bradbury)? In maniera laica. Senza farsi catturare dall’enfasi ideologica. E senza inciampare in strumentalizzazioni intellettualistiche. Occorre evitare i vaneggiamenti dei tanti corifei degli eco-vandali, i quali, con argomentazioni prive di ogni ragionevolezza, difendono le effimere uscite degli attivisti di Ultima Generazione. Ma bisogna sottrarsi anche alle posizioni di alcuni critici afflitti dall’ansia di fare notizia e ai giudizi ingenuamente provocatori di qualche artista, come Gian Maria Tosatti, il quale, in un recente articolo, attingendo a fonti erudite mal assimilate, è arrivato addirittura a legittimare il rogo della Venere degli stracci: attraverso il clochard, con il fuoco, il popolo avrebbe fatto giustizia di un’opera non riuscita.
Ci limitiamo a porre due domande. Perché gli eco-vandali, tanto attenti alle emergenze ambientali, aggrediscono inermi e incolpevoli dipinti di Van Gogh o Klimt e non la sede di qualche multinazionale? E ancora: come avrebbe reagito l’artista-scenografo Tosatti se un vandalo avesse colpito a martellate la sua installazione alla Biennale di Venezia del 2022? Ma sì: avrebbe invocato la coscienza popolare, pronta a sfidare l’inconsistenza dell’arte borghese. Al di là dell’ironia, occorrerebbe solo un po’ di buon senso. Per stigmatizzare, senza attenuanti, con rigore e severità, i gesti di quei cittadini che, incuranti delle proprie radici, privi di educazione e di rispetto per i beni comuni, con gioiosa ignoranza, danno sfogo a istinti dionisiaci, accanendosi contro parti di quell’immenso e stratificato patrimonio storico-artistico di cui, invece, dovrebbero essere consapevoli custodi.
Ecco, solo un po’ di buon senso.
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