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28 Gennaio 2024a cura di Maurizio Porro
Lo spettacolo
Noto anche come I bassifondi, o Sul fondo, o Il dormitorio, dramma di Maksim Gorkij, in scena per la prima volta a Mosca nel 1902, fu ribattezzato L’albergo dei poveri nel 1947 da Strehler. È quest’ultimo titolo che Popolizio (sopra e a destra, al centro della scena, nelle foto di Claudia Pajewski) ripropone al pubblico. La drammaturgia è di Emanuele Trevi (sotto). Al Teatro Argentina di Roma dal 9 febbraio al 3 marzo
Il cast
In scena, con Popolizio, Giovanni Battaglia, Gabriele Brunelli, Luca Carbone, Martin Chishimba, Carolina Ellero, Raffaele Esposito, Diamara Ferrero, Francesco Giordano, Marco Mavarac-chio, Michele Nani, Aldo Ot-tobrino, Silvia Pietta, Sandra Toffolatti, Zoe Zolferino
Nella serata storica del 14 maggio 1947 si inaugurava a Milano il Piccolo Teatro con L’albergo dei poveri di Maksim Gorkij (1868-1936), drammaturgo e scrittore russo, tra i più amati accanto ai suoi amici Tolstoj e Cechov. Ha raccontato, odiato dai potenti di qualunque ordine e grado di regime, la vita degli umili della terra e la potenza delle tenebre: il suo testo andò in scena nel dicembre 1902 al Teatro d’arte di Mosca con una famosa regia di Konstantin Sergeevic Stanislavskij.
Il primo teatro pubblico italiano iniziò così la sua storia (fu un trionfo artistico-sociale firmato da Paolo Grassi e Giorgio Strehler) con un dramma che poi lo stesso Strehler avrebbe ripreso nel 1970 (due anni dopo fu anche un bel film tv oggi su Rai Play) con un suo gruppo di fedelissimi attori mentre si era temporaneamente «licenziato» dal Piccolo. In questo caso scelse un titolo più fedele all’originale, Nel fondo, usato anche da Jean Renoir e Akira Kurosawa per i capolavori che ne trassero con attori come Louis Jouvet, Jean Gabin, Toshiro Mifune. Prima del Piccolo, Strehler aveva già diretto nel 1946 Piccoli borghesi di Gorkij all’Excelsior di Milano.
A tanti anni di distanza (ma nel 2018 Franco Cordelli recensì un’edizione che veniva da Vilnius, Lituania) debutta il 9 febbraio all’Argentina di Roma e dal 7 al 28 marzo a Milano, una nuova edizione del testo di Gorkij, coproduzione tra i due enti, con il bellissimo titolo inventato nel 1947, L’albergo dei poveri. Mantenuto non solo come omaggio ma per il suo valore storico, emblematico, poetico, da Massimo Popolizio, che firma la regia dello spettacolo (e figura anche come attore nel ruolo di Luka, il pellegrino) mentre la riduzione teatrale del testo è di Emanuele Trevi, le scene di Marco Rossi e i costumi di Gianluca Sbicca.
Avete resistito alla tentazione di attualizzare i bassifondi russi del 1902 agli emarginati di oggi?
MASSIMO POPOLIZIO — Non ci sono riferimenti attuali e non è il dormitorio della stazione. Oggi l’idea di emarginazione è diversa: il nostro tema è qualcosa di più etico ed eterno sulla natura dell’uomo.
EMANUELE TREVI — Il testo ha una smaccata sensibilità sociologica, diversa da tutti gli scrittori russi dell’epoca. Più che di attualità parliamo di eternità di una certa condizione: non ci sono profezie nel grande scrittore, miseria e povertà sono elementi immobili della società.
Gorkij dava più fastidio allo zar Nicola II o a Stalin che si dice l’abbia fatto avvelenare?
MASSIMO POPOLIZIO — Dava fastidio a tutti quanti per il suo bisogno di spiritualità e perché questi bassifondi sono un mondo a sé, raccontato con una potenza scespiriana; ognuno dei quindici personaggi è psicologicamente tridimensionale, vive anche nel suo passato.
EMANUELE TREVI — Gorkij aveva una personalità troppo forte e libera, mai autore di regime, era un vero gigante. Se è vero che fu vittima di Stalin, vuol dire che la censura zarista proseguiva le sue modalità…
Tutti questi personaggi che si trovano esiliati dal mondo potrebbero essere le varie facce di uno solo?
MASSIMO POPOLIZIO — Il mio personaggio, il pellegrino, è diverso da tutti, non li comprende. Ha una vena mistica e cialtronesca, parla della coscienza e di Dio, ma è chiaro che non vogliamo fare né la morale né la lezione a nessuno. Un documentario su Gaza sarebbe più forte di qualsiasi denuncia: ci sono battute che fanno pensare alle guerre di oggi ma non metto mai l’evidenziatore, non uso la retorica che uccide la comunicazione, in scena ho solo venti panche e quattro mura, senza video, ma lavoro sull’emozione degli artisti.
EMANUELE TREVI — La teoria del singolo che li vale tutti e tutti lo valgono, è affascinante, ma il personaggio di Luka ha una sua strada, indica una via trascendente di salvezza, naturalmente illusoria.
Come si passa dalla riduzione di un testo a un copione per la rappresentazione?
MASSIMO POPOLIZIO — Sono proprio i passaggi ai quali stiamo lavorando, quelli in divenire. Terminato il lavoro di Trevi inizia il trasbordo concreto e mutevole in palcoscenico. È un sistema complesso, sono tutti in contemporanea, bisogna raggiungere un particolare climax tra gli attori, uno stato emotivo fatto di passionalità, generosità, incredulità. Il testo rappresenta l’uomo e per chiarire il concetto abbiamo qua e là leggermente spostato alcuni brani del dramma, senza mai alterare il senso, anzi amplificandolo, inserendo frammenti di altri autori coevi e amici di Gorkij, come Tolstoj e Cechov, ma anche il contemporaneo Cormac McCarthy. E io penso anche al Georges Simenon del Treno, sempre nel senso della fauna di diversa umanità e della sua tridimensionalità.
EMANUELE TREVI — Sono il più consapevole che occorre passare da un testo per la lettura a un copione per la recitazione; tutto cambia nel momento in cui iniziano le prove, nel nome di un grande artigianato scenico. Il teatro è un’evoluzione della letteratura che si trasforma, bisogna rinunciare a volte anche a cose che sembrano belle, che sono venute bene, come diceva Ernest Hemingway in Festa mobile, a favore dello spettacolo.
Prendiamo tre nomi che vengono in mente leggendo il testo di Gorkij: Samuel Beckett, con la battuta sulla noia, vizio borghese; Bertolt Brecht ovviamente per il contrasto tra l’anima e la pancia piena; infine Luigi Pirandello perché si pronuncia addirittura 55 volte la parola verità.
MASSIMO POPOLIZIO — In quanto alla verità di Pirandello, qui è nemica, non un’amica, meglio non dirla, ad alcuni non serve, la parabola del Paese dei giusti che alla fine si scopre non esiste, porta al suicidio dell’attore (un ex attore teatrale che vive nel dormitorio). In quanto a Brecht, come altri, si è ispirato a Gorkij per il coro dell’Opera da tre soldi, la battuta sullo stomaco che dovrebbe essere pieno sapendo che in fondo l’uomo non è fatto di solo stomaco. Tutti hanno saccheggiato Gorkij perché parlava di temi universali che poi sono esplosi nella società.
EMANUELE TREVI — In quanto a Beckett, ci sono i germi che passano però prima attraverso Gustave Flaubert e il bovarismo. C’è l’eternità del nulla e del nonsense; ma se nel Romanticismo vince il dubbio esistenziale del principe Amleto, nel Novecento il personaggio vero è l’homeless. E c’è la potenza seduttiva della letteratura, la ragazza che legge e si commuove all’amor fatale, come l’eroina di Jane Austen nell’Abbazia di Northanger, romanzo del 1803 uscito postumo».
Fa impressione pensare che nel 1947, quando iniziò in Italia l’avventura di questo spettacolo, Gorkij era morto solo da 11 anni. Poco ci mancava fosse presente nella sala di via Rovello.
MASSIMO POPOLIZIO — Eravamo usciti dalla guerra, è un testo che chiama alla spiritualità anche se sei ateo. Più sei laico più ne hai bisogno oggi perché la tecnologia ci rende tutti moralmente insensibili e indifferenti anche alle immagini dei bambini amputati in guerra. Ma attenzione: il mio spettacolo non è pesante, non è depressivo, non è moralistico, non faccio lezioni, lascio soltanto tracce. È come un richiamo, un avviso dei tempi, tipo la campanella a scuola, certo non lo recito perché ci sono le guerre in corso, delle quali non mi faccio mai scudo retorico. E resta una sorpresa l’effetto che può avere: forse Gorkij è oggi davvero necessario…
EMANUELE TREVI — Era morto da poco, vero, e nel testo ci sono battute… per esempio dice che la donna è da picchiare ma secondo un decalogo preciso. Poi ci vedo quasi del surrealismo, quando le parole vengono ripetute e perdono senso, come sapeva Ionesco. E ci sono i rifiuti sociali, quasi bidoni da spazzatura beckettiani, ma non ci sono mai i creatori di tutto ciò, i padroni, i «borghesi».
Ci sono battute che appena dette diventano classiche: la nobiltà è come il vaiolo, i segni rimangono. Oppure: la coscienza se la possono permettere soltanto i ricchi.
MASSIMO POPOLIZIO — Queste battute rimangono, così come le micro inserzioni aggiunte dopo che abbiamo letto e riletto. Entra il discorso emotivo sull’attore perché il testo ha una valenza scespiriana e religiosa, c’è la preghiera in latino sull’eterno riposo, ma a noi spetta far scoppiare qualcosa dentro la coscienza dell’attore, come diceva Luca Ronconi, e qualcosa che poi deve arrivare in platea.
EMANUELE TREVI — Io sono conquistato, in questo testo, dall’appartenenza a due mondi, da una parte il teatro classico e dall’altro la modernità serpeggiante che facciamo passare dal testo al copione, vedi la battuta sui segni della nobiltà, più indelebili dei tatuaggi.
«L’albergo dei poveri», datato 1902, è un testo del passato?
MASSIMO POPOLIZIO — No. Mai. Il teatro, in particolare questo dove il personaggio dell’attore lo evidenzia molto bene, è un tentativo di creare per difesa un altro modo di vivere, un tuo credo, senza guardare la realtà orrenda del mondo. Il teatro serve proprio come alternativa vitale, la realtà come voglio che sia. C’è tanta cattiveria che qualcuno dice: non so come Dio non abbia ancora spento il sole. Ma è l’attore, in fondo, che non regge alla fine dell’illusione.
EMANUELE TREVI — Interpretiamo una cosa del passato rispettando due verità che si accavallano, perché le generazioni si impossessano delle storie e le deformano, e ne garantiscono in questo la durata nel tempo. Il pubblico misura poi il grado di fedeltà, una fedeltà collegata all’idea di un tempo da passare in sala, meno di due ore.
Sono trascorsi oltre 75 anni dalla prima di quest’opera che ha anche inaugurato un nuovo modello di teatro e un nuovo modo di fare teatro. Gli attori sono cambiati, ma neppure con Strehler erano molto brechtiani…
MASSIMO POPOLIZIO — Perciò io mi baso sul lavoro di ensemble che considero fondamentale nel teatro contemporaneo, specie in un testo così complesso e corale come questo. L’ensemble è la potenza di oggi. Ogni attore deve accendere la sua fiamma e dare il suo contributo di coscienza, poi spetta a me regista inserire altri elementi, in questo caso nulla di visivo, ma molta musica. Ho una colonna sonora variopinta con un inedito accostamento di nenie arabe, canti georgiani, cori, violini e violoncelli, lamenti di donne e uomini, ma mai rock e mai pop. Lo spettatore sarà coinvolto anche perché io porto la scena in avanti verso la platea, per sentirci tutti uniti nello stesso «albergo».
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