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17 Novembre 2024
di Emilia Costantini
Nel 1972 Gabriele Lavia interpretò il ruolo di Edgar nel Re Lear di William Shakespeare diretto da Giorgio Strehler. Adesso l’attore impersona proprio Lear, nello spettacolo che, anche con la sua regia, dal 26 novembre al 22 dicembre apre la stagione del Teatro Argentina di Roma.
Ha deciso di affrontare il ruolo perché ne ha raggiunto l’età anagrafica?
«In verità è un caso. Avevo deciso di non portare in scena questo personaggio, mi sentivo troppo vecchio per farlo, tanto che avevo rivolto il mio interesse a un altro testo, Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill (ne scriviamo nell’articolo accanto, ndr). Ma l’anno scorso ero a Milano, in scena per Un curioso accidente e, proprio mentre camminavo lungo la via intitolata a Strehler, ricevo una telefonata. Era il presidente del Teatro di Roma, Francesco Siciliano, che mi diceva: vorrei che tu inaugurassi la prossima stagione dell’Argentina con Re Lear. Rimasi di stucco. Ho pensato a un tiro birbone di Strehler, come se avesse voluto dirmi: hai deciso di non farlo? E adesso vedrai che lo farai…».
Cosa ricorda della messinscena di cinquant’anni fa che ne fece Strehler? Ha tenuto conto delle indicazioni che il regista dava a Tino Carraro nel ruolo di Lear?
«Carraro era inarrivabile, divino… Ma non ho tenuto conto dell’impostazione registica strehleriana, ognuno deve lavorare sulla propria esperienza. Tuttavia ho voluto usare la stessa traduzione del testo che usò il maestro, quella di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari. Poi, ovviamente, ho memorie molto precise e forti di quello straordinario allestimento: impossibile cancellarle, troppo importanti anche affettivamente. Strehler era un genio assoluto, io in confronto un poveretto: non gareggio con lui».
Il regista del Piccolo, in realtà, voleva affidarle la parte di Edmund.
«Sì, mi aveva visto in uno sceneggiato televisivo. Mi fece chiamare dai suoi assistenti per un provino. Dopodiché, gli stessi assistenti mi dicono che il maestro aveva deciso di scritturarmi per interpretare Edmund. Io risposi che mi sentivo più adatto a fare Edgar. E stavolta, venni di nuovo convocato da lui… era piuttosto alterato e, tra un’imprecazione e l’altra, alla fine si arrende, dicendo: vabbé, vuoi fare la parte di quel rompiscatole di Edgar? E allora fallo!».
Osò contestarlo e vinse?
«Sì! Il primo giorno di prove l’ho davvero sorpreso. Mi presentai coperto da un mantello, ma sotto ero completamente nudo. Il maestro era seduto in platea. Quando entrai in scena, strappai via il mantello, mi cosparsi di argilla e cominciai a recitare la parte. Lui mi guarda, una lunghissima pausa, silenzio assoluto e poi sbotta con un riferimento a Rita Renoir, la più grande spogliarellista di Amburgo, una dilettante al mio confronto… Accettò il mio modo di affrontare il personaggio».
Lei ha affermato che deve tutto a Strehler…
«E lo confermo, pur essendo molto diverso dal suo modo di lavorare: impossibile copiare da lui! Aggiungo che fu proprio Giorgio a capire, molto prima di me, che in seguito avrei fatto anche il regista dei miei spettacoli. Infatti, tutte le volte che, durante le prove, gli manifestavo qualche idea sulla messinscena, mi diceva: “Vedo sul tuo capo la nuvola nera della regia, e mi dispiace molto per te”».
Chi è oggi il suo «Re Lear»?
«È una storia di perdite: perdita della ragione, perdita del regno, perdita della fraternità. Lear è un uomo che commette l’errore di non voler più avere a che fare con il potere, decide il “non essere” più re e, dando via il proprio “essere”, cioè il proprio regno alle figlie, diventa uno come tanti, che non contano nulla. Non è che un “nulla”, tanto da chiedersi disperato: “Sono io Lear?”».
Lear è un vecchio padre con tre figlie: Goneril (interpretata da Federica Di Martino), Regan (Silvia Siravo) e Cordelia (Eleonora Bernazza)…
«…Quest’ultima verrà ripudiata, perché è l’unica a pensare, saggiamente, che la scelta del genitore sia folle, sbagliata; le altre si approprieranno del regno».
Anche lei, Lavia, ha tre figli: Lorenzo, nato proprio nell’anno del suo Edgar con Strehler, che ha seguito le sue orme artistiche di attore; altrettanto attrice Lucia, mentre Maria ha fatto altre scelte. Per interpretare Lear, si è servito della sua esperienza di padre?
«Non ho questa tecnica metafisica, ovvero di attraversare me stesso per trovare un giusto metodo interpretativo. Sono più un materialista dialettico, credo che un attore reciti una parte come può, come sa. A volte meglio, a volte peggio… mi auguro che stavolta venga meglio. Oltre a me, ho 14 attori da dirigere e sono contento quando la compagnia è numerosa, perché il teatro è un’arte collettiva, c’è bisogno di tanta gente; compresi scenografi, costumisti, tecnici, macchinisti…».
Dicono che lei sia molto severo con gli attori…
«Sono severo, però non cattivo. Mi piacerebbe che tutto fosse preciso, perfetto, sono un maniaco della perfezione, ma poi a un certo punto bisogna finire le prove, alzare il sipario e presentarsi al pubblico… Strehler le prove non le finiva mai. Ricordo che una volta, per rimandare la prima di uno spettacolo, finse addirittura un colpo apoplettico. Non era contento di come stavano procedendo le scene, secondo lui orrende…».
Come andò a finire?
«Che rientrò in teatro, lanciò una bestemmia, poi aggiunse: volevo morire, nessuno è venuto a salvarmi, e allora procediamo al debutto, tanto sarà un fiasco. Quella volta provammo fino alle 7 del mattino successivo: eravamo tutti convinti che sarebbe stato un insuccesso, invece…».
Lei si definisce un vecchio, e non lo è. Dice di guardare alla sua età con orrore, ma ogni anno sforna spettacoli…
«Ho 82 anni e, per un essere umano, è un’età estremamente avanzata».
Però il teatro aiuta a mantenersi giovani…
«Non lo so. In effetti, bisognerebbe allungare la giovinezza, non la vita. Io sto allungando la vecchiaia e ora interpreto un vecchio che, portando in braccio la figlia Cordelia morta, urlerà agli spettatori: “Siete uomini o pietre?”, invocando le loro grida e il loro pianto. Il resto… è silenzio».
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