Paolo Russo
«Sulla sanità abbiamo messo più risorse di quante ne abbiano mai investite i governi che ci hanno preceduto», è andata ripetendo Giorgia Meloni in risposta alla protesta dei 14 scienziati, alla quale si somma ora quella di 75 società medico-scientifiche, che insistono invece a denunciare il definanziamento del nostro Ssn. Che le cose non stiano affatto come vuol far credere la premier lo dimostrano non i suoi oppositori ma il Def del suo stesso ministro dell’Economia, che sui conti della sanità prova a fare il gioco delle tre carte. Perché a leggere la tabellina in fondo alla sezione dedicata al servizio sanitario si legge che nel 2024 ci sono postati 138,776 miliardi, ben 7,6 in più rispetto all’anno precedente. Un aumento pari al 5,8%. Ma lo stesso documento, senza mostrare le cifre, spiega in un altro passaggio che in quella somma ci sono anche 2,4 miliardi del rinnovo del contratto 2019-21 del personale sanitario. Soldi che erano stati in un primo momento collocati sul fondo sanitario del 2023, che infatti risulta ora aver fatto il passo del gambero rispetto al 2022, con 533 milioni in meno di finanziamento, per via dello spostamento in avanti di un anno del pagamento degli aumenti contrattuali. Ma dal finanziamento di quest’anno, specifica sempre il Documento di economia e finanza, bisogna detrarre anche la quota accantonata per il rinnovo contrattuale dell’altro triennio, quello del 2022-24, che ammonta a 3 miliardi. Fatte le dovute somme si arriva a 5,4 miliardi da detrarre dall’aumento del fondo, che si riduce così a un ben meno appariscente più 2,2 miliardi. Ma anche in questo caso non è tutto oro quel poco che luccica. Perché come specifica ancora una volta il Def, in questa cifra si da per scontato quello che scontato non è, ossia il pagamento anche quest’anno del miliardo versato nel 2023 dalle imprese produttrici di dispositivi medici, cose che vanno dalle garze ad apparecchiature come Tac e risonanze. In base al meccanismo del cosiddetto pay back, introdotto dal Governo Renzi, le aziende del settore devono infatti contribuire al pagamento del 50% di quanto sforato rispetto a un tetto di spesa ritenuto tra l’altro dallo stesso governo sottostimato. Peccato che il Tar Lazio abbia sospeso il provvedimento che obbliga le imprese al ripiano, rinviando alla Consulta la decisione finale, che non si preannuncia ne imminente e ne favorevole.
Ma incrociando i numeri del Def con quelli di Bankitalia si scopre dell’altro. Che dal 2021 al 2024 l’inflazione si è mangiata con gli interessi quel po’ di maggiori risorse messe sulla sanità, tanto che in termini reali la spesa sanitaria invece di avanzare si sarebbe ridotta del 6,2%. Che in valori assoluti sono 8,6 miliardi che mancano per tornare ad avere la dote di tre anni fa. E nemmeno devono ingannare i quasi tre miliardi e 100 in più del 2025, i poco meno di 3 del 2026 e più o meno altrettanti dell’anno successivo, che sono frutto del trascinamento negli anni degli aumenti contrattuali. Soldi in più che andranno nelle tasche di medici e infermieri, ma che non servono ne ad assumerne di nuovi, ne a pagare il lavoro extra per ridurre le liste di attesa e nemmeno ad acquistare macchinari e a far andare avanti Asl e ospedali.
In questo contesto diventa poi del tutto secondario denunciare, come fanno da tempo le opposizioni, lo stallo degli investimenti rispetto al Pil, che salgono di una decimale al 6,4% quest’anno, per poi riscendere al 6,2 nei due anni successivi, restando ben distanti dal 6,7% del 2022, per non parlare del 7 e passa per cento dell’anno precedente. Quando la grande crisi pandemica aveva spaventato anche gli ex cultori delle spending review sanitarie, che colpirono duro in epoca Renzi.
Resta il fatto che se i soldi in più messi sul fondo se ne andranno tutti in aumenti salariali, inflazione e mancati ripiani dei debiti da parte delle aziende, resta da capire dove trovare le risorse per realizzare la riforma della sanità territoriale e il Piano sulle liste di attesa che sta mettendo a punto il titolare della Salute Schillaci, che a Giorgetti ha chiesto 600 milioni per far lavorare di più medici e tecnici sanitari nel pubblico e per pagare maggiori prestazioni al privato convenzionato. Mentre soldi serviranno anche per far funzionare Case e Ospedali di comunità finanziati con 7,1 miliardi del Pnrr. Buoni per tirare su le mura, ma non per pagare i professionisti sanitari che dovrebbero lavorarci. E così con il gioco delle tre carte sui finanziamenti alle fine i nuovi maxi ambulatori aperti 7 giorni su 7 e 24h rischiano di diventare una nuova incompiuta della nostra sanità sempre più a corto di soldi.