il film
Elio Germano, Toni Servillo
Fulvia Caprara
Lido di Venezia
Potrebbe essere la tragedia di un uomo ridicolo, megalomane, maniacale, se non fosse che, tra le sue dichiarazioni celebri, ce n’è una, rilasciata prima dell’infinita latitanza, che gela il sangue: «Con le persone che ho ucciso potrei riempirci un mio cimitero privato». Per raccontare in Iddu, ieri in gara alla Mostra, la vita segregata di un criminale mafioso tra i più famosi del mondo, gli autori Fabio Grassadonia e Antonio Piazza hanno scelto di seguire il percorso di una comunicazione che, a partire dall’autunno 2004, avrebbe dovuto portare a un arresto, poi saltato a causa di una soffiata. Da una parte c’è il latitante Matteo (Elio Germano), dall’altra Catello (Toni Servillo), politico di basso profilo, invischiato in una catena di affari sporchi, appena uscito di galera: «Abbiamo studiato la figura di Matteo Messina Denaro e ci siamo imbattuti in questo strano scambio epistolare. Leggendo i suoi pizzini ci siamo accorti che il tratto del ridicolo emergeva con chiarezza, il mondo che lo circondava e che ha consentito la sua latitanza per trent’anni, si fonda su questa caratteristica, in tutto, nei soprannomi, nelle abitudini, nel modo con cui i protagonisti si prendevano sul serio. La cifra grottesca della messa in scena è, in questo caso, una conseguenza dell’osservazione della realtà: Iddu è il capitolo finale della nostra trilogia, iniziata con Salvo e proseguita con Sicilia Ghosts Story. Un’esplorazione tematica che rielabora il senso e i sentimenti generati dalla nostra vita in Sicilia negli Anni 80 e 90, anni del dominio claustrofobico della mafia, e delle conseguenze antropologiche e sociali di questo dominio nel presente». Grassadonia ha esperienze dirette: «Mio padre è stato un imprenditore edile nella Palermo Anni 80, la mafia gli ha bruciato i cantieri, mia sorella è stata a lungo minacciata, non poteva uscire di casa. A raccogliere la sua denuncia fu Bruno Contrada, poco dopo hanno messo una bomba a casa nostra».
Nei due protagonisti, nel loro confronto, spesso a un passo dalla comicità, si ritrovano pezzi di un tessuto sociale contaminato: «Catello – dice Servillo – è un saltimbanco assediato dalla disperazione, cerca di tirarsi fuori dai suoi guai con miserabili astuzie e soluzioni di piccolo cabotaggio. Accetta con audacia il patto con i Servizi Segreti che gli promettono la soluzione dei suoi problemi con la giustizia in cambio del contatto con il boss. L’ho visto come un uomo che affronta la vita come se fosse un palcoscenico su cui alternare le sue maschere». Di Matteo, spiega Germano, «ho cercato di catturare il suo essere una figura assente, un boss che comanda dal chiuso di un appartamento, malato di narcisismo patologico». L’affresco al nero è segnato dalle sconfitte della legge (lo stratagemma non funzionò e Matteo Messina Denaro venne arrestato solo nel 2023) ma anche dallo studio di quello strano linguaggio, quasi letterario, che aveva nutrito il protagonista nel tempo della solitudine: «Le sue lettere – osservano gli autori – ci hanno aperto uno squarcio sorprendente sull’intimità di un criminale che sembrava coltivare buone letture e anche inclinazioni cinefile». Il film (dal 10 ottobre nei cinema) riporta in primo piano l’argomento Cosa Nostra che, in un tempo non lontano, da chi sosteneva che la mafia non esiste, è stato considerato poco interessante: «È vero – commentano Piazza e Grassadonia – nel nostro Paese c’è stato chi ha detto che i panni sporchi si lavano in casa. È un atteggiamento ricorrente, dopo le stragi degli Anni 90 è stato impossibile ignorare il problema, adesso invece stiamo tornando a una dimensione di rimozione culturale e psicologica, una cosa molto dolorosa soprattutto per noi siciliani. Vogliamo immaginare di vivere in un’isola bellissima, dove si mangia benissimo, dove ci sono commissari simpaticissimi che indagano su omicidi non di mafia, purtroppo poi succede che ci svegliamo in un’isola che vive problemi, come ad esempio la siccità, figli anche della lunga latitanza di Matteo Messina Denaro, di affari tra mafia e politica, di soldi finiti nelle tasche sbagliate e non nelle opere pubbliche».
Per questo, dice Servillo, «ben vengano i film che mettono il dito nella piaga, dove ci si schiera, dove non si ritiene che il fenomeno mafia sia ormai endemico e non vada più combattuto». E per questo, aggiunge ancora Germano «le istituzioni dovrebbero marcare un atteggiamento diverso, senza limitarsi a dare finanziamenti solo a chi garantisce i profitti». Notazione questa, non casuale, perché Iddu, fanno sapere gli autori insieme al produttore Nicola Giuliano, non ha ricevuto sostegni «né dal ministero, né dalla Sicilia Film Commission».