Il derby populista tra Meloni e Salvini è già cominciato. La sfida tutta interna alla destra sovranista, a colpi di provvedimenti su larga scala e (soprattutto) annunci spot, è sotto gli occhi di tutti. Taglia e tassa i guadagni delle banche sanguisughe; dagli alle compagnie aeree che speculano sui prezzi dei biglietti e sulla pelle dei viaggiatori; sforbicia e infine cancella il reddito di cittadinanza, inviso alla gran parte dei cittadini che per loro fortuna un lavoro e un reddito lo hanno già. Eppure, c’è un baco che si sta insinuando alle radici di una maggioranza che pure oggi sembra quanto mai stabile e solida.
Certo, siamo solo all’inizio, il 9 giugno — il traguardo della competizione europea — è lontanissimo. Da questa torrida estate alla prossima primavera ne vedremo di ogni. Una sfilza di misure che avranno un doppio tratto comune: l’impronta marcatamente populista e il riguardo verso le corporazioni, le lobby, le basi elettorali che hanno portato al successo la destra di governo. Dai tassisti ai commercianti, dagli agricoltori all’esercito di professionisti, dai balneari ai benzinai. Ma questo fa parte del gioco del governo, per quanto odioso e spregiudicato e interessato possa risultare.
Poi c’è il baco, che lavora alla base politica della coalizione. E che lentamente ma inesorabilmente sta trasformando l’Italia in un’anomalia continentale. Sia chiaro, a renderci un preoccupante unicum, agli occhi dei partner europei e occidentali, non è l’esistenza di due destre. La loro convivenza è fisiologica, sarebbe tutto sommato in linea con quanto accade in tanti altri Paesi. In Francia la destra neogollista ha contribuito a costruire la Repubblica nel Dopoguerra. Chirac è stato tra i padri della nostra Europa, fautore e profondo sostenitore dell’Alleanza atlantica. Mai e poi mai avrebbe contaminato il suo consenso con quello torbido della destra lepenista.
A rendere l’Italia un osservato speciale invece è proprio l’evidente e irrisolta commistione tra una destra popolare e liberale, da una parte, e un’altra che corteggia e imita i movimenti più estremi e autoritari d’Europa. Fino alle frange neonaziste tedesche di Afd o quelle che nutrono simpatie per la “democratura” di Putin e perfino per la sua criminale invasione dell’Ucraina.
Per uscire dalle etichette e chiamare ogni cosa col suo nome, non desta scandalo la campagna avviata da Matteo Salvini per sottrarre consensi a Giorgia Meloni e alla sua persistente luna di miele elettorale. E ormai nessuno si stupisce se il capo della Lega si schiera fuori dai confini con la destra estremista e filo russa, raccattando il peggio del movimentismo sovranista.
L’avvertimento lanciato ieri all’indirizzo dei suoi alleati italiani è quasi un manifesto: «Non si deve escludere nessuno, nessuno può dire non mi piace la Le Pen, non mi stanno simpatici gli austriaci». Guai alla premier, è il non detto, se medita di relegarlo da solo ai margini, per dar vita davvero a Bruxelles a un’alleanza tra conservatori e popolari. Lo sappia anche il segretario forzista Antonio Tajani, ricordando che non potrà più contare sui fasti elettorali di Silvio Berlusconi.
No, quello che colpisce non è il Salvini estremista. Ma è il guado nel quale si ritrova a Roma la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il suo vagare incerto e fragile tra i rigurgiti ideologici di una destra radicale e la tentazione — finora giusto quella — di metamorfosi in una destra liberale. In questi dieci mesi di governo, di politica applicata alla realtà e alla legislazione, ma anche di sguaiati comizi e interminabili dirette social per bypassare le domande della stampa, siamo lontani dalle ambizioni e dalle aspirazioni di un liberalismo alla Giovanni Malagodi. Nelle parole, nelle azioni e nelle troppe omissioni, nella propaganda e nei conti non fatti con la storia si intravedono piuttosto i tratti pur opachi di Giorgio Almirante, se non quelli di Pino Rauti.
Ora, con buona pace dell’ingombrante e imbarazzante alleato di governo e dei suoi avvertimenti, la leader di Fratelli d’Italia ha in mano il suo destino politico. È lei e solo lei che può prendere le distanze dal mondo al quale sembra ancora drammaticamente ancorata. Tenta di far dimenticare i Nar, così vicini ai suoi padri politici, ma non lo potrà mai fare se continuerà a definire Bologna una strage terroristica e non neofascista. È lei e solo lei che può rinnegare l’amico Marcello De Angelis e farsi accompagnare per mano da Antonio Tajani nell’Europa liberale e popolare, lontano da Marine Le Pen. Se lo vorrà davvero e se potrà darlo. La donna sola al comando adesso è una leader sola davanti al suo bivio. Sta a lei schiacciare il baco e imboccare la strada giusta.