Lo psicodramma sulle liste per le elezioni europee del Pd è appena all’inizio. Al di là del balletto dei nomi dei candidati da lanciare e da bruciare, e della fisica e della metafisica delle posizioni dei nomi nella lista, siamo tra Oppenheimer e Guglielmo di Occam, è il secondo tempo del congresso, vinto tredici mesi fa da Elly Schlein, ma mai davvero concluso.
Alla segretaria si rimproverano molte cose, ma soprattutto non se ne perdona una: aver vinto senza aver contratto troppi patti con il reticolo di capicorrente, presidenti di regione, sindaci, parlamentari nazionali, parlamentari europei, consiglieri regionali e comunali che ha guidato il partito nell’ultimo decennio: un partito molto carico di classe dirigente e sempre più impoverito di elettori.
Il reticolo era un anno fa quasi completamente schierato con Stefano Bonaccini, dato per sicuro vincente. Oggi fatica ad accettare le decisioni della segretaria, messa sotto tiro anche da esponenti che un anno fa l’hanno sostenuta, magari con l’obiettivo di ritagliarsi un posto al sole dopo la sconfitta.
È la dimostrazione che la partita va oltre i vecchi schieramenti congressuali e supera anche le elezioni europee. Quei dirigenti, nel loro insieme, rappresentano l’ossatura del Pd, a Roma e nei territori, raggruppano un pezzo importante di elettorato, quello che è rimasto nonostante tutto, ma da soli non bastano, fanno parte del problema, il crollo di consensi e di ruolo politico subiti dal Pd negli ultimi dieci anni, più che essere la soluzione.
Anzi, qualcuno potrebbe sostenere, più radicalmente, che sono loro il problema. Al tempo stesso, la nuova leadership di Schlein non è ancora riuscita a costruire la soluzione per riportare a votare gli elettori del Pd che sono ex-voto del Pd, che si sono sentiti respinti dal partito, e anche i mondi che verso il Pd hanno avuto grande diffidenza.
I nomi lanciati nella contesa del 9 giugno possono essere, nella migliore delle ipotesi, un abbozzo, un inizio. È questo l’impasse, non personalistico, tutto politico.
Lo scontro sulle candidature, però, sta rivelando qualcosa di più profondo, che non riguarda solo il Pd, anche se in questa crisi il Pd è coinvolto in maniera particolare.
C’è una scissione tra politica e società, tra partiti e base elettorale, non misurata soltanto dall’indicatore più evidente, l’astensionismo, ma anche dall’incomunicabilità, dalla sordità reciproca che prende la strada di fenomeni imprevedibili (rettori di università contestati, direttori di giornale contestati), lontani anche dal populismo vecchio stile che si accaniva soprattutto sulla casta dei politici.
A questa scissione i partiti di destra danno una risposta verticale: sono partiti del capo e talvolta della famiglia del capo, che al massimo può essere sostituito una volta ogni dieci anni con un drammatico regicidio, vedi i passaggi da Fini a Meloni o da Bossi a Salvini, con qualche tappa intermedia.
Forza Italia, il primo partito della Seconda Prima Repubblica che stiamo vivendo, fa il pieno dei portatori di voti, non si pone l’obiettivo di ricucire con la società, basta recuperare i notabili.
Lo stesso prova a fare l’operazione Renzi-Della Vedova. Restano fuori il Movimento 5 Stelle, che fin dalle origini teorizza di non avere bisogno di un rapporto con la società civile, proponendosi come un pezzo di società esclusa senza altre mediazioni, e il Pd, il partito più travolto dalla perdita di rappresentanza.
La più importante delle scommesse della segreteria Schlein è la riduzione del fossato con i pezzi di società persi negli ultimi dieci anni. La reazione del vecchio gruppo dirigente, però, è scoraggiante.
Le candidature degli esterni sono sottoposte a esami del sangue e prove di fuoco, come mai è avvenuto nella Dc, dove convivevano Augusto Del Noce e Pietro Scoppola, nel Pci, che nelle sue liste presentava Giorgio Napolitano e Raniero La Valle, e soprattutto nel Pd delle origini.
Nel Pd di Walter Veltroni, inseriti tra i nomi dell’assemblea costituente e perfino della commissione valori, c’erano Paola Binetti dell’Opus Dei e l’ateo militante Pierluigi Odifreddi, oggi invece chi è stato erede e beneficiario di quella stagione fatica ad accettare perfino Marco Tarquinio che è un cattolico determinato nelle sue posizioni, ma mite, dialogante e autenticamente popolare, o Cecilia Strada.
Forse preoccupano perché si possono accettare gli intellettuali se sono figurine concesse dal Principe, ma non se sono portatori di una visione originale del mondo e di una qualche rappresentanza. Ieri avremmo potuto dire che il Pd, nato per unire culture diverse, tradisce la sua natura se si chiude, se si blinda nei suoi equilibri interni.
Ma oggi, in tempi di radicalizzazione, il rischio è ancora più grosso. Significa consegnarsi da soli non solo alla sconfitta elettorale, ma all’irrilevanza.