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23 Dicembre 2022L’analisi della produzione limitata al posto di lavoro è utile ma non sufficiente: in questa lunga intervista Nancy Fraser spiega come lo sfruttamento si estenda all’intero spettro delle relazioni sociali e ambientali
Molte generazioni di marxisti hanno versato fiumi di inchiostro per approfondire le basi teoriche poste da Marx nella sua potente critica sociale. Le femministe in particolare si sono concentrate sull’analisi del lavoro domestico, scolastico e sanitario, che nella maggior parte dei casi stenta a essere riconosciuto come tale. Ma senza il lavoro necessario per crescere, educare e guarire le persone – che le marxiste femministe hanno chiamato «lavoro di cura» – i lavoratori e le lavoratrici non possono sopravvivere, e dunque nemmeno il capitalismo stesso. Questa teoria cancella il tradizionale confine tra casa e posto di lavoro e svela l’esigenza di un esame più dettagliato sulla pervasività del capitalismo, che va oltre il piano economico in senso stretto.
Nancy Fraser, critica teorica marxista, è nota per i suoi interventi marxisti e femministi sulla riproduzione sociale. Il libro di Fraser, Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi(Meltemi, 2019), estende l’analisi originale della riproduzione sociale agli altri punti critici del capitalismo. Fraser dimostra come sia necessario, per esaminare il capitalismo nella sua totalità, che il marxismo superi la propria visione strettamente economica. La sua posizione rifiuta le divisioni nette, non solo tra casa e lavoro ma anche tra economia, politica e ambiente, e tra il regime liberale del lavoro e l’espropriazione violenta nelle periferie neocoloniali.
Nancy Fraser è stata intervistata da Daniel Denvir – conduttore del podcast di Jacobin The Dig – per parlare del libro che ha scritto con Jaeggi, della crisi della riproduzione sociale del capitalismo e della responsabilità socialista nell’offrire un’alternativa.
Il tuo è un marxismo a tutto tondo. Hai saputo mettere in chiaro che lo sfruttamento della manodopera nel campo della produzione, che poi è il tema più vicino a molti marxisti, dipende in modo significativo da tre elementi chiave molto spesso ignorati. Prima di tutto la riproduzione sociale che include, anche se non in modo esclusivo, la vita familiare. In secondo luogo la politica, che va dal mercato alla creazione e difesa delle attività del governo, fino al mantenimento e all’espansione del sistema carcerario. Terzo, la natura non umana che per il capitalismo è contemporaneamente un’indispensabile risorsa di materia prima e una discarica per gli scarti.
Alcune versioni ortodosse del marxismo non si curano molto di questi aspetti. Il che è ironico, perché il capitalismo stesso mistifica e nega la propria dipendenza da queste sfere. Spiegaci questa più ampia visione del capitalismo che, nella tua analisi, è molto più che un semplice sistema economico.
Hai ragione a dire che esiste una tendenza a pensare al capitalismo solo come a un sistema economico. Per questo si crede che con la critica al capitale, ciò che si mette in discussione sono l’organizzazione della produzione, la distribuzione della ricchezza, il modo in cui il potere di classe si manifesta sul posto di lavoro e così via. Queste sono tutte cose estremamente importanti, ma non rappresentano la totalità della critica, perché l’economia ufficiale all’interno di una società capitalistica dipende da un sostrato di relazioni, pratiche sociali e istituzioni che sono considerate al di fuori dell’economia.
In particolare, oserei dire che una caratteristica davvero peculiare delle società capitaliste è proprio la centralità della distinzione tra ciò che è veramente economico e ciò che non lo è. Questa distinzione non si dà in modo naturale, è al contrario socialmente costruita ed è stata istituzionalizzata nelle società capitaliste con una reale forza materiale e politica.
Tutto il lavoro necessario per partorire e crescere bambini e bambine e il lavoro di cura nei confronti di persone con cui si hanno rapporti di prossimità viene posto al di fuori dell’economia capitalista; almeno fino a quando non viene mercificato e diventa lavoro salariato. Anche se in tutti i casi resta marginalizzato.
Quando pensiamo di criticare il capitalismo, molto spesso ignoriamo tutto questo. Evitiamo di domandarci come sia organizzato il potere pubblico, il potere degli stati e delle istituzioni politiche ed economiche mondiali, il potere della polizia e di come esso sia una condizione necessaria perché l’economia capitalista in senso stretto possa funzionare. E per quanto riguarda la natura non umana, dal punto di vista economico capitalista è vista come un magazzino di materia prima che può essere usata ed esaurita, senza preoccuparsi di rinnovarla come se si trattasse di un dono infinitamente disponibile. E come hai detto viene anche usata come una discarica in cui gettare l’enorme quantità di rifiuti che produciamo.
Se adottiamo una visione allargata del capitalismo ci rendiamo conto che non è possibile capire come funziona l’economia in senso stretto senza guardare al modo in cui fa affidamento sul sistema della cura e della riproduzione sociale, sul sistema naturale e sui vari sistemi politici. L’economia non va avanti senza queste cose. La mia proposta è che invece di leggere il capitalismo come un sistema economico, dobbiamo vederlo come l’immagine di qualcosa di molto più grande.
Un vantaggio di questa visione allargata del capitalismo è la possibilità di mettere a nudo il modo in cui relazioni di potere e dominio – che vanno oltre quelle di classe su cui i marxisti si sono tradizionalmente concentrati – sono strutturalmente radicate nella società capitalista. Questo include le relazioni di dominazione e sottomissione di genere, assolutamente legate alla divisione tra produzione economica e riproduzione sociale. Anche la razza e la dominazione imperialista sono parte di questo quadro a un livello altrettanto strutturale, oltre ovviamente alla predazione ecologica e alla distruzione su cui poggia.
Siamo di fronte a un ventaglio più ampio di assi di dominazione, nodi problematici e punti di crisi. C’è molto di più all’interno di una società capitalista di ciò che l’analisi economica tradizionale suggerisce.
La riproduzione sociale è stata al centro del tuo lavoro per gran parte della tua carriera. Potresti spiegarci di più di cosa si tratta e come si differenzia dalle forme di patriarcato che sono esistite al di fuori del capitalismo?
In parole povere, vorrei che ci illustrassi l’aspetto che le crisi della riproduzione sociale assumono negli Stati uniti oggi. Una contraddizione fondamentale del capitalismo, è che la spinta ad accumulare più capitale comporta che tutti questi prerequisiti – da cui il capitalismo dipende ma che nega – sono costantemente minacciati di mercificazione e distruzione. Vorrei che approfondissi queste crisi della riproduzione sociale e i motivi per cui il capitalismo è portato a minare le condizioni stesse della propria esistenza.
Da una parte la riproduzione sociale indica semplicemente tutte le attività, le energie e le relazioni sociali necessarie a produrre, socializzare e riprodurre gli esseri umani e i legami che uniscono le persone nella vita sociale. La riproduzione sociale in questo senso più generale esiste in ogni società, sia essa precapitalista, capitalista o socialista.
Ma la riproduzione sociale nelle società capitaliste si organizza in un modo specifico che la differenzia da ciò che chiamiamo produzione economica. Esiste un enorme divario tra casa e lavoro, tra famiglia e fabbrica. Questa divisione è storicamente correlata al genere, con la distinzione tra sfera femminile e maschile.
È questa distinzione tra produzione e riproduzione nel capitalismo ad essere caratterizzante. Nelle società precedenti la manodopera femminile era spesso differenziata da quella maschile, nel senso che non si occupavano precisamente delle stesse cose, ma lavoravano più o meno nello stesso spazio della casa allargata o del villaggio o della comunità. Non c’era alcun sentore che il lavoro femminile potesse essere occultato, invisibilizzato, considerato non contribuente. Ma con l’emergere del capitalismo – e specialmente delle varie ideologie vittoriane e dell’ideale dell’angelo del focolare della classe media– si è sviluppata l’idea che le donne non lavorassero per niente. La loro era una funzione decorativa o di diffusione nella società dei sentimenti morali più nobili. Si tratta di un’enorme mistificazione.
Alcune femministe marxiste hanno immaginato il lavoro di riproduzione sociale come strettamente legato alla casa. Secondo me questa definizione è troppo limitante. Non si tratta solo di pulire, cucinare e lavare entro i confini di una casa familiare privata. La riproduzione sociale dovrebbe includere anche il lavoro nelle scuole e nelle altre istituzioni che costruiscono legami sociali.
I parchi giochi, i centri sociali, le feste di quartiere.
Parchi giochi, centri sociali, ospedali, cliniche mediche sono tutti siti di riproduzione sociale,è un’ampia gamma di attività sociali. Ma perlopiù – a meno che non siano portate all’interno dell’economia e trattate come un modo per fare profitto – non è dato loro alcun valore, e questo è un altro elemento distintivo del capitalismo. La maggior parte della riproduzione sociale è percepita come priva di valore dato che l’intera raison d’être del capitalismo, l’unica misura di valore del sistema, è l’accumulo di profitti e la conseguente espansione del capitale.
Questo mi porta alla questione della tendenza alla crisi. Col tempo, ciò che può verificarsi è un fallimento sistemico nell’investimento nella riproduzione sociale. Se il capitale non vuole pagare un salario dignitoso alle lavoratrici domestiche e le aziende non vogliono pagare le tasse necessarie a finanziare servizi pubblici di qualità si verifica uno stillicidio della riproduzione sociale, tanto da poter mettere a rischio la capacità stessa di una società di riprodursi in questo senso umano e sociale.
Sappiamo quale aspetto avesse questo fenomeno nel diciannovesimo secolo grazie all’importante opera di Friedrich Engels sulle condizioni della classe lavoratrice in Inghilterra: nella fase iniziale del capitalismo in cui le nuove industrie impiegavano donne e bambini nelle fabbriche e nelle miniere insieme agli uomini. A dirla tutta, i capitalisti adoravano il lavoro minorile e il lavoro femminile perché pensavano fossero lavoratori e lavoratrici docili che potevano pagare di meno.
In ogni caso, c’era una situazione di crisi reale della riproduzione sociale, in cui la classe operaia non era più in grado di riprodursi e di presentare lavoratori in salute che avessero le conoscenze e le capacità umane necessarie. Ciò provocò una quantità enorme di conflitto e lotta politica mirata prima a ottenere leggi protettive che bandissero il lavoro minorile, poi che limitassero le ore lavorative, fissassero un salario minimo, istituissero misure di sicurezza e via dicendo. Tutto ciò per cercare di tracciare dei limiti e supportare il processo di riproduzione sociale che il capitale lasciato a sé stesso stava esaurendo e distruggendo.
Questa è la tendenza intrinseca alla crisi che tu identifichi come lotta per i limiti.
Sì, ho coniato l’espressione «lotta per i limiti» per provare a dare un nome a quella tensione che è costruita nella società capitalista esattamente intorno alle divisioni istituzionalizzate tra produzione e riproduzione, tra economia e sistema politico, tra natura non umana e società umana, che è presentata come non naturale.
Queste sono divisioni fondative e costitutive della società capitalista, sono strutturali e sono anche i luoghi sociali dove si accumula il conflitto. Dov’è che bisogna tracciare il confine tra produzione e riproduzione? Le lotte che ho già menzionato riguardo alla legislazione sociale nel diciannovesimo e ventesimo secolo si interrogavano su questo. Ed erano al contempo lotte sul confine tra stato e mercato perché ci si interrogava sulla possibilità dello stato di intervenire e imporre un salario minimo, misure obbligatorie di sicurezza e così via.
Credo che la storia marxista sulla lotta di classe, nonostante sia molto potente e assolutamente pertinente al nostro contesto, non tenga completamente conto delle lotte che avvengono al di fuori del posto di lavoro, che potrebbero anch’esse essere lette come lotta di classe se avessimo una definizione più ampia di classe, ma che sono in ogni caso lotte per i limiti.
Negli ultimi cinquant’anni ci siamo mossi verso una nuova forma di capitalismo, anche se ormai non è più così nuova. Viene spesso chiamata neoliberalismo, io preferisco chiamarla capitalismo finanziarizzato. Comunque lo si nomini è molto diverso dal regime precedente di capitalismo che ha prosperato negli Stati uniti a partire dal New Deal e altrove a seguito della Seconda guerra mondiale. Io lo chiamo capitalismo di stato ma lo si potrebbe chiamare capitalismo socialdemocratico o capitalismo dei monopoli.
L’idea chiave del capitalismo di stato era che lo stato interveniva per supportare la riproduzione sociale. L’approccio era: non possiamo permettere che la ricerca del profitto impedisca alle personedi avere una vita, o anche solo di generare i nuovi lavoratori per il sistema capitalistico? Tasseremo il capitale, finanzieremo l’istruzione e insisteremo affinché i salari siano in grado di garantire una vita privata.
Voglio mettere in chiaro che sono l’ultima persona a dire che questo New Deal, questo regime gestito dallo stato, fosse un’età dell’oro. Questo capitalismo si fondava su grandi squilibri di potere, reggeva sulla subordinazione delle donne basata sull’idea del salario familiare, e cioè che un lavoratore dovesse ricevere uno stipendio sufficiente a mantenere la moglie disoccupata e i figli. Oggi può apparire come un lusso ma rispecchiava il modello patriarcale secondo cui le donne dipendono dagli uomini e si basava inoltre sulla capacità degli stati a capitalismo avanzato di succhiare valore dai paesi che allora chiamavamo del Terzo Mondo e che oggi chiamiamo «Sud globale».
Hai indicato nella razza e nel razzismo – oltre che in un sistema interstatale imperialista, iniquo e predatorio – una delle caratteristiche fondanti del capitalismo. In che relazione sono con le tre grandi distinzioni che hai delineato tra produzione e riproduzione, economia e politica, umano e natura non umana?
Prima ho detto che l’oppressione di genere è intrinseca al capitalismo per come lo conosciamo. Lo stesso vale per l’oppressione etnica e razziale. L’oppressione di razza non è accidentalmente correlata al capitalismo, è strutturalmente integrata a esso e la ragione è che il capitale ha sempre ricavato benefici dall’esproprio di forza lavoro, materia prima e altre utilità di cui non paga il prezzo intero.
Il capitalismo si è sviluppato storicamente lungo due linee. Da una parte c’è l’operaio che va in fabbrica e prende uno stipendio più o meno corrispondente ai costi della sua riproduzione sociale. Dall’altra, c’è una popolazione molto più ampia di persone i cui beni vengono semplicemente espropriati dal capitale, dagli stati imperialisti e coloniali o persino dai loro stessi stati.
Questa accumulazione ottenuta con l’esproprio ricorda la continua e persistente versione dell’accumulazione primitiva.
Esatto. L’espressione «accumulazione tramite esproprio» è stata coniata da David Harvey ed è molto pertinente. Io però preferisco parlare di esproprio versus sfruttamento. Jason Moore, il critico ecosocialista, scrive che «dietro Manchester si erge il Mississippi».Ossia che non si può avere la capacità di sfruttare il lavoro di fabbrica nei grandi stabilimenti tessili di Manchester e ottenere un profitto senza la materia prima del cotone prodotto dagli schiavi del Mississippi. Il lavoro schiavile rende più economico l’approvvigionamento della materia prima per la produzione tessile. E se anche zucchero, tabacco, rum ecc. sono prodotte da schiavi tanto meglio, i salari potranno essere più bassi avendo a disposizione beni di consumo meno cari.
Sfruttamento ed esproprio sono sempre stati strettamente legati nella storia del capitalismo e lo sono tutt’ora. La distinzione tra sfruttamento ed esproprio corrisponde a quella che W. E. B. Du Bois ha chiamato «linea del colore». Storicamente le persone razzializzate sono state espopriate, mentre quelle definite bianche, europee o metropolitane venivano sfruttate.
Lo sfruttamento non è una passeggiata, ma rimane comunque una posizione privilegiata rispetto all’esproprio. Credo che questa divisione sia il fondamento della base strutturale dell’oppressione di razza nelle società capitaliste. Non si tratta solo di una distinzione economica, ossia che uno viene pagato e l’altro no. È anche che uno dei due è libero e l’altro è dipendente, schiavo e soggiogato, vuoi come soggetto coloniale o come parte dei beni mobili.
Marx sostiene che con la manodopera salariata è libera solo di firmare il proprio contratto. Ha un certo numero di diritti, anche se non ha gli strumenti materiali per esercitarli in piena libertà. I soggetti espropriati (e questo è il significato stesso dell’esproprio) non hanno diritti né protezione. La loro persona, le loro proprietà, le terre, gli animali e i figli possono essere sottratti in qualsiasi momento, e non c’è potere a cui possano rivolgersi per tutelarsi. Quindi essere espropriabili significa essere intrinsecamente soggetti a violazione, e questo è un altro importante significato della razzializzazione.
La tua analisi mi ricorda un’intuizione di Barbara Fields che scrive di come il razzismo sia il risultato delle contraddizioni tra ciò che tu chiameresti la sfera politica e quella economica del capitalismo liberale. La democrazia liberale vagheggia libertà e una qualche forma di uguaglianza per tutte e tutti, ma poi c’è l’economia che è apertamente e brutalmente diseguale. Il razzismo è una specie di soluzione provvisoria a questa contraddizione.
C’è una contraddizione: a differenza del feudalesimo e delle società schiavistiche, il capitalismo dipende dall’idea che i membri della classe lavoratrice siano individui liberi. Hanno dovuto lottare ma hanno ottenuto il diritto al voto, diritti civili e non solo. D’altra parte, il capitalismo non può funzionare senza questo sostrato.
È analogo alla situazione delle casalinghe: la loro manodopera non è espropriata in senso stretto dal capitale. E lo stesso avviene per vaste fette di popolazione in tutto il mondo, nelle colonie e nelle ex colonie ma anche negli stati capitalisti
La libertà del lavoratore, che non è altro che la libertà di farsi sfruttare, teniamolo a mente, dipende dalla sottomissione del «non-lavoratore» razzializzato. Qualsiasi beneficio degli sfruttati è ottenuto a discapito degli espropriati, anche se ovviamente non ne godono affatto gli sfruttati bensì il capitale.
La razza è centrale poiché il capitalismo necessita continuamente di sfruttamento ed esproprio insieme, e assegna queste funzioni a due popolazioni diverse. Il risultato è la razzializzazione.
Un elemento particolarmente interessante che delinei nel tuo libro è il modo in cui diverse forme di esproprio, tramite l’invasione coloniale e la schiavitù, sono anche legate a forme specifiche di esproprio ambientale. La descrivi come la relazione tra manodopera libera ed espropriazione da un lato ed energia dei combustibili fossili ed energia umana dall’altro. Potresti spiegarci la dinamica e il modo in cui questa si manifesta non solo tra gli stati nazionali ma anche al loro interno?
Innanzitutto bisogna riconoscere che la produzione capitalista, e in generale tutta la produzione, dipende dall’energia. J. R. McNeill, in un suo saggio, fa una distinzione tra regimi energetici somatici ed extrasomatici. Un regime somatico necessita di corpi umani e animali per convertire l’energia solare e chimica in energia meccanica utilizzabile per la produzione. Ed è quello che è avvenuto . per millenni, inclusi gli stadi iniziali del capitalismo.
Poi è stato introdotto il motore a scoppio: da quel momento si poteva convertire l’energia chimica in meccanica senza che fossero impiegati esseri viventi e questo ha cambiato completamente le carte in tavola, perché sembrava significare che è possibile liberarsi dalla biomassa. Se prima per aumentare la produzione era necessario conquistare nuovi corpi e nuove terre, ora sembrava essere sufficiente un po’ di carbone grezzo e qualche operaio.
Ma questa è soltanto la punta dell’iceberg. Le conseguenze di due secoli di emissioni sregolate di carbonio ricade sulle popolazioni del «Sud globale» e sulle comunità razzializzate nel «Nord globale» soggette a razzismo ambientale, discariche tossiche, ecc.
Anche questo aspetto ha a che fare con l’esproprio e l’imperialismo, che a sua volta dipende da come il capitalismo divide l’economia dal sistema governativo. Il capitale mette in piedi un sistema economico mondiale al quale sovrappone un sistema politico multistatale formato da nazioni fortemente ineguali.
Il futuro è Elon Musk, le macchine che si guidano da sole, il commercio ad alta frequenza, la perfetta e quasi totale automazione. Sono queste le risposte tecnologiche alla crisi ecologica. Che cosa ne pensi?
È la fantasia assurda della libertà dalla materia. È l’idea che possiamo catapultarci al di fuori della nostra corporeità, al di fuori della nostra esistenza materiale e planetaria e dare alla luce noi stessi come mente pura o esseri simbolici. Ma queste fantasie di liberazione dalla natura e dal lavoro hanno sempre significato una sola cosa: scaricare il nostro peso su altri corpi e altra materia. Ancora, Manchester può esistere solo perché da un’altra parte c’è il Mississippi, ovvero altre persone le cui condizioni di vita vengono devastate.
Come per le altre divisioni che evidenzi, quella tra politica e economia mistifica relazioni profonde e di dipendenza reciproca. Oggi questo sembra evidente su molteplici fronti diversi. C’è il movimento del Tea Party e Donald Trump e il modo in cui la libertà del capitale ha incontrato questo nazionalismo crescente, la chiusura dei confini e la xenofobia. Vorrei che ci spiegassi la differenza tra crisi oggettive e soggettive e l’attuale dinamica tra crisi politiche ed economiche con l’apparente risultato di una crisi di legittimità dell’intero sistema.
Il fatto che il capitale cerchi continuamente di conquistare manodopera gratuita, natura gratuita, benefici politici gratuiti senza farsi carico dei costi è oggettivo. Senza una qualche forma di intervento questa dinamica finirà necessariamente per minare, destabilizzare ed esaurire le condizioni di base di cui il sistema ha bisogno. Questo è un dato oggettivo di una tendenza alla crisi parallela a quella del crollo del tasso di profitto di cui parlava Marx.
D’altro canto, quando si parla di lotta di classe e lotta per il limite, ci si riferisce al modo in cui la gente reagisce e risponde alle tendenze oggettive. Si rendono conto o no che c’è qualcosa di estremamente negativo in atto? Pensano effettivamente che si tratta di una crisi o no? Pensare che si tratta di una crisi significa dirsi: «Non è un caso. Sta succedendo tutto questo perché c’è qualcosa nel sistema stesso che lo sta generando, e questo sistema può essere cambiato. Ci troviamo davanti a un bivio e forse siamo pronti a prenderci la responsabilità di organizzarci collettivamente per cambiare le cose». Questo significa reagire in modo soggettivo, farsi carico del peso di definire qualcosa una crisi e di affrontarla.
La forma attuale di capitalismo (che la si chiami neoliberale, globalizzante o finanziarizzata) ci ha portato a una crisi oggettiva. Ci sono tantissimi indicatori, incluso un declino dell’aspettativa di vita di importanti settori della popolazione statunitense. Quindi, certamente è in atto una crisi oggettiva e sempre più persone la riconoscono come tale.
Ma tutto dipende dal modo in cui le persone che individuano la crisi la interpretano: dove ritengono siano le sue vere origini, chi sia il colpevole, a cosa imputarla, cosa bisogna cambiare. In ogni momento storico c’è più di una narrazione intorno a una data crisi. Hai menzionato una crisi di legittimità, questo significa che la narrazione condivisa secondo cui le persone interpretavano quello che succedeva in un periodo senza crisi, ha perso credibilità.
C’è una frattura dell’egemonia delle narrazioni, degli schemi e dei significati dominanti che le persone usano per interpretare il presente. Di fronte a una crisi emergono nella sfera pubblica molteplici schemi e storie che entrano in competizione per definire una controegemonia, un’altra narrativa dominante. Penso che questo sia esattamente quello che sta accadendo adesso.
Negli Stati uniti c’è sicuramente un’energia compensativa i cui antecedenti risalgono al periodo delle proteste No global, e percorrono il movimento Occupy Wall Street e Black Lives Matter e infine le campagne elettorali di Bernie Sanders. Trump ha ulteriormente delegittimato la versione Clintoniana di quello che si può chiamare capitalismo neoliberale progressista.
Quando parlo di neoliberismo progressista intendo che c’è una parvenza di progressismo, apparentemente egualitario ed emancipatori legata alla stessa economia politica che ha creato la Nafta e l’Omc, ha abrogato la legge bancaria Glass-Steagall e ha sostanzialmente invitato l’industria produttiva a ritirarsi e la finanza a espandersi in più settori. Bill Clinton è l’architetto chiave di tutto questo, insieme ai cosiddetti Nuovi Democratici.
Negli ultimi trent’anni, l’economia politica ha ridotto in poltiglia la working class statunitense. E quando dico working class non intendo solo gli operai edili, i lavoratori di fabbrica, i minatori, i trivellatori. Intendo l’intera classe lavoratrice, che include ovviamente persone razzializzate, donne e migranti.
La trovata geniale di Trump, anche se non di sua invenzione, è stata convincere una larga fetta della popolazione che quella politica economica neoliberale fosse una conseguenza del femminismo, del multiculturalismo, e dei «privilegi» dati alle persone nere e agli immigrati. È riuscito a non sembrare così assurdo, perché alcuni settori più convenzionali di questi movimenti sociali si sono alleati effettivamente con i governi e con le forze imprenditoriali responsabili del neoliberalismo.
Verso la fine del libro scrivi che questo ordine politico precedentemente egemonico si è diviso tra neoliberismo progressista e reazionario. Questa dinamica si è verificata in parte a causa delle sfide populiste a destra e a sinistra di Trump e Sanders.
Prima di Sanders e Trump, eravamo in una situazione con due possibili esiti: un neoliberismo reazionario o un neoliberismo progressista. Si poteva scegliere tra etnonazionalismo e multiculturalismo, ma in qualsiasi caso non si poteva sfuggire alla finanziarizzazione e alla deindustrializzazione. Poi, c’è stato questo momento sorprendente in cui all’improvviso l’universo politico si è allargato e si sono palesate altre opzioni: il populismo progressista di Sanders e il populismo reazionario di Trump. Poi Trump al potere è stata un’altra storia: in un batter d’occhio il lato economico del populismo scompare e Trump ha rincarato la dose del neoliberismo iper-reazionario.
C’è una tendenza, in situazioni come queste, a sentire il bisogno di serrare i ranghi per combattere la minaccia fascista. Prima di tutto si dovrebbe capire se fascismo è la parola giusta, dubito che lo sia. Ma in ogni caso, non siamo giunti a un punto in cui serrare i ranghi è l’unica cosa sensata da fare. Ci sono dei momenti nella storia in cui bisogna farlo. Non è questo il momento, almeno non ancora.
Penso che ora sia il momento che la sinistra e i populisti progressisti o i socialisti democratici cerchino non di serrare i ranghi ma di dividere la massa di persone che si identifica con il femminismo, l’antirazzismo, l’ambientalismo e il multiculturalismo dai loro alleati neoliberali che hanno strumentalizzato le loro richieste e rivendicazioni in una forma che è perfettamente in linea con la finanziarizzazione neoliberale. Bisogna chiudere con il femminismo del Facciamoci avanti, con il «femminismo aziendale». Io faccio parte di un’iniziativa di femministe socialiste che ha cercato di dar vita a qualcosa che chiamiamo il femminismo per il 99 per cento. E vorrei vedere un ambientalismo per il 99 percento, un antirazzismo per il 99 percento e così via.
Possiamo e dobbiamo dividere chi si riconsce nel progressismo, e allo stesso tempo dovremmo cercare di dividere quelli che si riconoscono in Trump. Sono convinta che molte delle persone bianche della classe lavoratrice che hanno votato per lui non sono irrimediabilmente vendute alla sua prospettiva xenofobica, anti-immigrazione, etnonazionalista e razzista. Otto milioni e mezzo di loro hanno votato per Barack Obama nel 2012 e poi Trump nel 2016. Questo ci mostra che non sono razzisti estremisti. Alcuni di loro hanno votato per Sanders nelle primarie democratiche. Votano per chiunque esprima una buona posizione sull’economia, sul lavoro, sui salari e sui servizi pubblici. E Trump su alcuni di questi aveva una posizione migliore di Hillary Clinton. Noi dovremmo legare queste posizioni a un punto di vista progressista sul genere, la razza, l’immigrazione.
Voglio chiederti come l’alienazione rientri in questo quadro, perché sembra essere la chiave per superare le analisi strettamente economiche, per capire le teorie complottiste o la disperazione tra i lavoratori bianchi che porta all’aumento anche dei suicidi in una fascia di popolazione che pure in molti casi versa in condizioni migliori della parterazzializzata. Che cos’è l’alienazione? Da cosa siamo alienati? Rispetto a cosa siamo resi alieni?
C’è una lunga tradizione letteraria sul lavoro alienato che risale già ai primi scritti di Marx. Il concetto si riferisce al lavoro salariale sfruttato all’interno del capitalismo in cui lavoratori e lavoratrici sono alienate dal proprio lavoro ma anche dalle altre persone e da quella che Marx chiamava «l’essenza della nostra specie», la nostra umanità, la libertà di decidere collettivamente che tipo di vita vogliamo vivere e di costruire le condizioni per farlo.
Le persone oggi sono alienate da tutto questo. Non c’è niente di più alienato, in termini di lavoro, di dover seguire un copione nell’interagire con i clienti, sia al telefono che in un fast-food mentre si sta anche facendo un lavoro massacrante o ripetitivo in condizioni orrende. La popolarità del freelance, anche se idealizzato per alcuni aspetti, risponde a una fame di creatività, di poter determinare autonomamente la gestione del proprio tempo, di essere un individuo, senza essere sotto la sorveglianza costante di qualcun altro.
Ma il significato più profondo dell’alienazione e dell’essere non-alienati ha a che fare con la libertà e la democrazia. Il capitalismo ci sottrae non soltanto il nostro lavoro e la nostra energia ma anche la nostra capacità di decidere collettivamente sulle questioni più importanti riguardo al modo in cui vogliamo vivere. Quanto duramente vogliamo lavorare? Per quante ore? Quanto tempo libero vogliamo avere? Che cosa vogliamo lasciare alle generazioni future? Come vogliamo relazionarci con la natura? Che cosa dovremmo fare con il surplus sociale che produciamo collettivamente?
Queste sono decisioni fondamentali, e vengono prese da una piccolissima percentuale di persone che si appropria del surplus che produciamo e usano i meccanismi di mercato per investire sulla crescita illimitata.
In altre parole, viviamo in una società in cui Elon Musk può decidere di lanciare una macchina nello spazio per divertimento ed è così che la nostra ricchezza sociale viene usata.
Esattamente. Mentre potrebbero esserci moltissime altre cose che preferiremmo fare con quella ricchezza. Potremmo perfino preferire di produrre meno ricchezza e vivere socialmente in modo più rilassato. Potremmo avere una vita più libera e democratica, ma non sarebbe compatibile con il capitalismo.
*Daniel Denvir ha scritto All-American Nativism (Verso, 2020) e conduce The Dig su Jacobin Radio. Nancy Fraser insegna filosofia e politica alla New School for Social Research. È autrice di Fortunes of Feminism (Verso, 2013) e con Rahel Jaeggi, di Capitalism: A Conversation in Critical Theory (Polity, 2018). Questo articolo testo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Valentina Menicacci.