L’opera narrativa di Carlo Cassola si può dividere in due periodi “esistenziali” e due “politici”: prima vengono le prose subliminari del decennio ’40-’50 (da La visita al Taglio del bosco); quindi, tra il ’50 e il ’60, le storie partigiane o prefasciste (da quel piccolo Dottor Živago ante litteram che è Fausto e Anna a quel piccolo Promessi sposi che è La ragazza di Bube); poi, dal ’61 al ’70, lo scrittore torna ai nuclei poetici degli esordi, dilatandoli in racconti lunghi o romanzi (da Un cuore arido a Paura e tristezza); infine, si apre una fase più eclettica, in cui spiccano gli apologhi civili con animali: solo che adesso la letteratura è subordinata alla pedagogia pacifista. Sia da “esistenziale” sia da “politico”, Cassola rifiuta l’impegno che si nasconde dietro insegne letterarie. Come dice di Tolstoj, entrambe le fasi della sua attività, quella contemplativa e quella interventista, «hanno radice nell’amore per la vita».
Traggo la citazione da Carlo Cassola e il «Corriere della Sera» 1953-1984, un volume edito dalla Fondazione del «Corriere» in cui Alba Andreini ha riunito, introdotto e annotato con scrupolo quasi tutti gli articoli affidati dallo scrittore al giornale milanese. Nella prima sezione si trovano i pezzi lirico-autobiografici riconducibili alla rubrica «Fogli di diario», sviluppatasi sotto la direzione Spadolini e antologizzata nel libro omonimo del ‘74; nella seconda i «Fogli di diario» saggistici risalenti al decennio di più intensa collaborazione ’68-’78; nella terza gli altri scritti, tra i quali si segnalano brani di romanzi e importanti autoesegesi. Ad accogliere chi legge è quindi subito il riflesso elzeviristico del Cassola narratore, una sorta di stenografia dei suoi luoghi poetici espressa con il «coraggio della desolazione» che gli riconobbe Ortese: la geografia di Cecina e Volterra, i ricordi dell’infanzia al Salario, le passeggiate abitudinarie in pineta, la mutevole immutabilità del mare, e i sintomi di un precoce sfacelo – il tutto puntellato con discrezione dai versi di Montale, Cardarelli, Leopardi, Luzi. Poi lo scenario cambia: quasi in reazione al traumatico invecchiamento, dalla metà degli anni ’70 l’autore si concentra su una militanza che assorbe ogni altro tema. È il Cassola che lotta per il disarmo unilaterale, che polemizza contro lo storicismo pronto a giustificare i vincitori e a dimenticare la natura, e che condannando l’umanesimo complice del potere sceglie come suoi modelli gli scienziati Einstein e Russell. In questi articoli risalta una nettezza lapidaria, cocciuta, evangelica, paragonabile solo a quella di don Milani. Qui Cassola, tra i nostri maggiori scrittori dell’epoca, si conferma un unicum: se infatti da poeta aderisce al «caos» e all’«anonimità» del mondo moderno, da intellettuale rigetta i suoi sofismi machiavellici in nome dei vecchi diritti dell’uomo illuministi e del prosaico socialismo di fine ‘800, quello ancora misto di mazzinianesimo e anarchismo dei suoi personaggi autodidatti che leggono Gorkij e London. Il poeta e l’intellettuale, però, hanno un bersaglio comune: la confusione tra attualità e realtà, che in letteratura induce a rimuovere la vita più inappariscente ma più vera, e in politica fa dimenticare le minacce tecnologiche che i giornali relegano a un trafiletto. Entrambi, insomma, sono intransigenti; ma se l’intellettuale, schematico e brusco, invoca una prassi senza coperture ideologiche, il poeta in prosa, che non credendo al teoricismo del XX secolo lavora a restaurare sabianamente le parole di tutti i giorni, è d’accordo con Leopardi nel considerare la conoscenza inversamente proporzionale alla vitalità psicofisica e artistica, e usa le cronache belliche o sportive di quotidiani e libri come pure suggestioni per nutrire la fantasia. «Se in Marx non c’è Cecina, che interesse ha Marx?» scrive Cassola in un articolo che porta la significativa data del 1968. Marx: cioè il dramma della Storia. Cecina: cioè la Toscana materna, dove sotto i grandi eventi palpita ciò che davvero conta, la vita «nuda e statica» del «sub-limine», ovvero la soglia oltre la quale l’aspetto consueto delle cose coincide con l’epifania della loro verità più intima.
Tutta la Storia che non si può ridurre alla memoria personale è per Cassola un impoetico kitsch da cappa e spada. Così nel suo incessante, ascetico ritorno su poche tracce esistenziali (i borghi centroitaliani, i piccoli borghesi tra le due guerre), la quotidianità più dimessa viene a coincidere con l’astrazione, come in quel Morandi sovrapposto in un articolo ai propri panorami. Ma se implica una ripetitività ossessiva, questa poetica implica anche una singolare attitudine ad azzerare di continuo l’opera che si ha alle spalle. La parabola cassoliana, spiega Andreini, «è quella di “un eterno principiante” che inganna il progredire del tempo», inseguendo sempre «un nuovo inizio». In un pezzo del ’73, Cassola stesso lamenta di esser costretto, in quanto narratore, a inventare una trama, mentre nel suo delirio d’immobilità, non a caso associato all’antiromanzo, aspirerebbe al perenne stato aurorale di un racconto «puramente esistenziale». Il suo Novecento sta nel paradosso di un romanzo che «si de-romanzizza, si staticizza», diventando tutto epifanie e «paesaggio». Si capisce allora perché al canone «Joyce Proust Kafka Musil» lo scrittore ne opponga uno «Joyce Lawrence Tozzi Pasternak» (dove dell’irlandese contano i Dubliners e il Dedalus, non l’Ulisse). Contro trame e idee, cioè contro una concezione girardiana del romanzesco, Cassola punta in fondo a un poema in prosa, il cui modello vede in filigrana in Hardy, in Pasternak e in certo Flaubert. Eppure alcuni dei passi più interessanti della raccolta sono quelli nei quali questo modello viene relativizzato. Accade, esemplarmente, davanti a Dostoevskij e a Proust. Essendo «un cerebrale, e insieme un passionale», il russo riesce infatti a rappresentare le ideologie che animano le sue creature non come dei freddi teoremi, ma appunto «come una passione». Quanto a Proust, l’elzevirista vorrebbe assegnargli “solo” il titolo di massimo teorico novecentesco della poesia: ma poi deve riconoscere che, malgrado o proprio per la sua sinuosità analitica, è un grande poeta in atto.
Bastano questi articoli, in cui costante è il disprezzo per gli slogan demagogici secondo cui “tutto è politica” o “tutto è letteratura”, a ricordarci perché Cassola è stato percepito come un corpo estraneo dai più diversi poteri culturali: Togliatti, il Gruppo ’63, Einaudi, la sinistra maggioritaria, e oggi gli accademici, quasi tutti impegnati a chiosare autori-idoli di cui è fin troppo facile esaminare la “filosofia” o l’“espressionismo” più o meno esotico, ma abituati a trascurare l’autore di Bube, anche perché assai più difficile è comprendere la sua sottile mimesi linguistica dei ceti medi e il suo meditato rifiuto del culturalismo. Non a caso, questo Cassola stigmatizza tempestivamente la monumentalizzazione universitaria di alcuni artisti, perché disabitua gli studiosi a giudicarli con la sua frontale schiettezza. «In ogni scrittore c’è la parte vera, viva, personale, originale, e la parte falsa, generica, convenzionale. Il lettore accerta la prima e rifiuta la seconda: non vedo cosa ci sia di scandaloso» scrive in un articolo del 1970; e usando termini crociani, nella tendenza della critica a «prendere tutto per buono» indica un errore morale nato «dal non voler riconoscere che la poesia è più importante della letteratura, e che la vita è più importante della poesia».
Carlo Cassola e il Corriere della Sera 1953-1984
a cura di Alba Andreini
Fondazione Corriere della Sera, pagg. 869, € 60