Non tutto è opinione, non tutto è fisiologico scontro di valori e posizioni. Ogni tanto capita che nel dibattito pubblico sia necessario un argine per evitare che torti e ragioni svolazzino come piume dentro una tempesta. Per fortuna, in questi casi, c’è Sergio Mattarella. Per fortuna, in Italia, c’è il presidente della Repubblica, che i padri costituenti pensarono terzo e arbitro anche per evitare che lo scontro tra le parti politiche assumesse le sembianze di un ring impazzito dove vale ogni colpo, in un Paese che aveva già conosciuto gli esiti della ribalderia e della meschinità spacciati per audacia e anticonformismo. La finezza di Mattarella, che il ruolo di arbitro lo ha sempre impersonato senza macchie né equivoci, sta nell’intervenire sempre e solo per ristabilire una igiene minima del confronto, senza fini occulti, ma anche nell’eleganza di usare l’anniversario tondo della morte di Alessandro Manzoni per attualizzare il pensiero dello scrittore e recapitare un messaggio a lorsignori, avrebbe detto Marco Pannella.
Può un ministro parlare di “sostituzione etnica” a proposito di immigrazione? E può giustificarsi invocando letteralmente l’ignoranza delle tesi suprematiste legate a quell’espressione, come se non conoscerne la storia diminuisse la gravità del farvi ricorso e l’oggettiva identità di vedute con la più vieta ultradestra? Ecco, Mattarella certifica che non può. Lo fa elevando a modello il liberalismo di Manzoni, che intendeva i diritti come universali, concepiti per la difesa della persona e non di etnie più o meno autoproclamate. Anche il nazionalismo risorgimentale manzoniano è letto dal presidente come tensione all’affermazione di giustizia e libertà per tutti i cittadini e non come affermazione di superiorità di una nazione sull’altra, che casomai è il nazionalismo nella sua forma aggressiva e stracciona diventato religione di Stato nel ventennio fascista, quando si scimmiottava il ritorno all’impero romano dal balcone di piazza Venezia. Mattarella è stato pure costretto a ricordare che “nefaste concezioni di supremazia basate sulla razza” hanno portato ai momenti più oscuri della storia.
C’è un aspetto palesemente contraddittorio nelle teorie del sovranismo tricolore. Se la nazione ha un senso e una missione, allora si rispetti la sua unità, come appunto Manzoni che sognava un’Italia unita e non più — oggi si potrebbe dire: non ancora — “coacervo di staterelli”, per usare le parole di Mattarella. Si abusa spesso dell’espressione “siamo l’unico Paese al mondo che…”, ma è difficile nonpensare che lo siamo davvero davanti al caso eccezionale di una destra che si proclama fieramente nazionalista e sovranista e che però da anni coltiva disegni di disgregazione territoriale, in ultimo con il progetto di autonomia regionale che andrebbe a innestarsi su un corpo già provato da lustri di sofferenza causata dalla pasticciatissima riforma del titolo quinto della Costituzione, in quel caso a opera di un centrosinistra ansioso di non lasciare alla Lega la bandiera del federalismo.
Il dannoso inseguimento degli umori delle “folle anonime”, calzante definizione della nostra era social, è appunto l’ultima lezione manzoniana che Mattarella consegna alla classe dirigente del Paese, ricordando gli effetti devastanti del potere che si acconcia al compiacimento degli istinti e alla ricerca del consenso immediato e fine a sé stesso. “Manzoni era popolare, non populista”, dice Mattarella in un passaggio di educazione civica necessario davanti a forze politiche che rivendicano orgogliosamente per sé la definizione e, nel recente passato, persino presidenti del Consiglio che se la sono appuntata come un fregio.
Ora che Mattarella ha ristabilito al livello più alto il confine della decenza intellettuale, pensate a un Paese senza di lui al Quirinale. Pensate a un Quirinale di parte, occupato da un presidente eletto magari inseguendo quegli istinti di cui si diceva poc’anzi.