di Sergio Fabbrini
Doveva essere una riunione “storica”, ma la “storia”, intesa come scelte di lungo periodo, non si è fatta vedere al Consiglio europeo di giovedì e venerdì scorsi. La riunione dei 27 capi di governi nazionali è stata invece il trionfo del breve periodo. Mi spiego considerando i due principali temi dell’agenda di quel Consiglio, l’aiuto all’Ucraina e l’allargamento dell’Unione europea (Ue). L’aiuto economico all’Ucraina di 54,5 miliardi di euro (per quattro anni, attraverso la European Peace Facility) è stato bloccato dal veto del premier ungherese Viktor Orbán (la Facility è un programma intergovernativo che funziona sulla base del principio di unanimità). Le Conclusioni della riunione ribadiscono la solidarietà dell’Ue verso il Paese in guerra, ma con la solidarietà non ci si difende dai prepotenti. Una discussione si è dunque aperta per individuare forme alternative di trasferimenti finanziari (come gli accordi bilaterali tra i singoli Paesi dell’Ue e l’Ucraina), rinviando la decisione al prossimo gennaio 2024.
Tuttavia, queste “forme alternative” non sono semplici da realizzare. Basta pensare alla discussione (surreale) in corso sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. Da più di un anno, i ministri finanziari dell’Eurozona discutono su come riformare il Patto senza considerare che ci sono due guerre in corso da affrontare e una transizione ambientale e industriale da realizzare. I termini della discussione sono sempre gli stessi. Ciò che preoccupa il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner è vincolare i bilanci nazionali, ciò che preoccupa il suo omonimo francese Bruno Le Maire è come rendere flessibili quei vincoli. Peraltro, la stessa “virtuosa” Germania non ha avuto scrupoli a ricorrere a trucchi contabili per sostenere le spese della transizione energetica pur di non violare il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio, trucchi che la sua Corte costituzionale ha bocciato clamorosamente con una sentenza del 15 novembre scorso. Comunque, la creazione di una capacità fiscale europea con cui affrontare le spese per le guerre e con cui sostenere le imprese nella transizione ambientale non fa parte della discussione sulla riforma del Patto. Così, mentre Putin se la ride, l’aiuto europeo all’Ucraina è vincolato da programmi intergovernativi difficilmente utilizzabili (per via dei veti) e da margini fiscali nazionali ridotti (anche in Germania). Pure sull’allargamento, il Consiglio europeo ha stentato a decidere. Doveva decidere sulla proposta della Commissione europea di avviare le negoziazioni per l’accesso (all’Ue) dell’Ucraina, della Moldova, della Bosnia-Erzegovina e di garantire lo status di Paese-candidato alla Georgia. La decisione, però, è stata bloccata dal premier ungherese Viktor Orbán che da settimane aveva manifestato la sua contrarietà ad avviare le negoziazioni per l’accesso (in particolare) dell’Ucraina. In realtà, per Orbán il veto doveva servire come un’arma per ottenere le risorse del bilancio europeo e di Next Generation EU (da cui dipende il suo potere), risorse congelate per via del non-rispetto ungherese dello stato di diritto. Infatti, mercoledì scorso la Commissione europea ha riconosciuto che «l’Ungheria sta facendo passi importanti verso l’indipendenza dei suoi giudici» (valutazione diffusamente criticata), meritando quindi di ricevere la prima rata di 10,2 miliardi di euro per progetti economici territoriali. Così, al Consiglio europeo, al momento della deliberazione sull’allargamento, Viktor Orbán ha pensato di uscire dalla sala della riunione per andare a bere un caffè, così consentendo ai rimanenti 26 capi di governo di votare all’unanimità la proposta della Commissione europea. Qualcuno ha chiamato quell’uscita come “astensione costruttiva” (prevista dai Trattati), in realtà, si è trattato di uno scambio da politique politicienne. D’altronde sta succedendo così anche nel Congresso americano, dove i repubblicani trumpiani hanno imposto che ci fossero fondi per il muro tra Texas e Messico all’interno di una proposta finanziaria, avanzata dalla presidenza Biden, per aiutare Ucraina e Israele. La decisione del Consiglio europeo a 26 ha un carattere soprattutto simbolico (comunque importante per gli ucraini impegnati in una terribile guerra). Dopo tale decisione, la Commissione europea e il governo ucraino dovranno concordare un framework negoziale, in cui specificare le aree in cui quest’ultimo dovrà impegnarsi a adeguare la legislazione nazionale a quella europea. Tale processo negoziale potrebbe richiedere anni per realizzarsi, alla fine del quale la Commissione europea formulerà una valutazione sull’adeguatezza dell’Ucraina ad accedere all’Ue, valutazione che dovrà quindi essere approvata all’unanimità dal Consiglio europeo. Dopo di ciò, il Trattato di accesso dovrà essere approvato da tutti gli stati membri, per via parlamentare o referendaria in base ai requisiti delle rispettive costituzioni nazionali. Ha detto Viktor Orbán, «ci saranno altre occasioni per esercitare il veto fino a quando non ci saranno dati gli altri 23 miliardi che ci spettano». Per via di istituzioni mal-pensate e di regole mal-disegnate, a Bruxelles si è costretti a negoziare tutto (anche la difesa dello stato di diritto) pur di tirare avanti. Insomma, anche volendo, la “storia” non poteva entrare alla riunione di Bruxelles. Prigionieri della retorica secondo la quale «si può fare molto a Trattati invariati», i capi di governo nazionali assomigliano a sonnambuli che camminano senza sapere dove stanno andando. Speriamo che non sia una cena tra Trump e Putin alla Casa Bianca a svegliarli.