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John B. Kegel, Giacomo Macola
All’inizio del XXI secolo, in tempi di globalizzazione trionfante, l’Africa subsahariana — il vecchio ricettacolo di tutte le disgrazie umane, la terra delle dittature sanguinarie e del debito paralizzante — sembrava davvero avere voltato pagina. In Africa Emerges, un libro del 2013 che simboleggia perfettamente le speranze e l’ottimismo un po’ ingenuo dell’epoca, Robert Rotberg, docente di relazioni internazionali alla Harvard University, celebrava il nuovo momento storico, sottolineando gli altissimi tassi di crescita annua di diversi Paesi subsahariani, i cosiddetti «leoni d’Africa», e l’effetto trainante dell’apparentemente inestinguibile domanda cinese di materie prime. A sentire Rotberg, l’Africa era definitivamente — e finalmente — instradata sulla via del consolidamento democratico e dello sviluppo socio-economico.
Oggi, in un contesto mondiale caratterizzato da slowbalization (termine coniato dal Fondo monetario internazionale per descrivere l’attuale rallentamento dei processi di integrazione economica a livello mondiale), dell’ottimismo del primo decennio del secolo resta ben poco. I prolungati conflitti in Africa centrale e nel Corno d’Africa, la lunga teoria di colpi di Stato nella regione del Sahel e il generale declino della democrazia nel continente mettono in dubbio la reale ampiezza e profondità dei processi di liberalizzazione politica inaugurati dalla fine della guerra fredda. Dal punto di vista economico, nel frattempo, il continente sembra sprofondato nell’ennesima crisi esistenziale — una crisi alla base della quale si trovano, innanzitutto, le difficoltà da parte di numerosi Paesi africani di fare fronte a un debito pubblico nuovamente fuori controllo.
È questo il tema di un importante articolo recentemente apparso sul «New York Times» a firma della giornalista economica Patricia Cohen. Dopo avere sottolineato come il debito estero del continente abbia ormai superato i mille miliardi di dollari e come siano almeno due dozzine i Paesi africani a rischio di default, l’autrice si è soffermata sulle caratteristiche inedite della crisi odierna. Diversamente dal passato, quando i creditori del continente erano quasi esclusivamente Stati singoli (incluse le ex potenze coloniali) e le principali istituzioni finanziarie internazionali, il debito africano è, al giorno d’oggi, molto più diversificato, poiché tra i creditori si annoverano anche svariati obbligazionisti privati e, soprattutto, un nuovo attore globale dotato dei mezzi economici per proiettarsi verso l’estero con una forza senza precedenti: la Cina, che da circa quindici anni è il primo partner commerciale dell’Africa nel suo complesso e uno dei principali finanziatori di molte nazioni africane.
Sono anni che la politica africana della Repubblica popolare cinese agita i sonni dell’Occidente. La Cina, in particolare, viene regolarmente accusata di fare ricorso a prestiti bilaterali indiscriminati allo scopo di spingere i Paesi debitori verso il default, ottenendo in questo modo il controllo delle infrastrutture la cui costruzione i medesimi prestiti erano serviti a finanziare. Un meccanismo neo-imperiale riassunto nella formula della debt-trap diplomacy, la diplomazia della trappola del debito, resa celebre dall’ex vicepresidente dell’amministrazione trumpiana Mike Pence nel 2018.
Lasciando pure da parte il fatto che queste posizioni allarmistiche — come Federico Rampini ripete da tempo — tendono a «infantilizzare» le élite di governo africane, sminuendone ingiustamente la capacità di agire intenzionalmente e la responsabilità, non esiste, in realtà, un vero consenso sulle intenzioni della leadership cinese, che certo fa affidamento sulla propria influenza in Africa per modificare a proprio vantaggio l’equilibrio mondiale, ma che ha spesso dato prova di maggiore flessibilità nel rinegoziare le scadenze dei debiti di quanto sia comunemente asserito. Inoltre, come evidenziato dal think-tank inglese Chatham House in The response to debt distress in Africa and the role of China, una lettura indispensabile per chiunque ambisca a spingersi oltre i luoghi comuni, il volume complessivo dei prestiti erogati dalle banche cinesi ai Paesi africani è andato gradualmente riducendosi in tempi recenti.
Sia come sia, il debito accumulato nel corso degli ultimi due decenni resta, e pesa, generando anche il cosiddetto leakage problem, o «problema delle fuoriuscite», che un rapporto recente del Finance for Development Lab definisce come la tendenza a impiegare gli aiuti da parte delle istituzioni finanziarie internazionali per ottemperare agli obblighi di servizio del debito nei confronti dei fondi di investimento privati e della Cina stessa. Il rallentamento complessivo dell’economia internazionale dovuto alla pandemia di Covid-19 e, successivamente, l’invasione russa dell’Ucraina hanno ulteriormente peggiorato la situazione. La guerra in Ucraina, in particolare, ha fatto schizzare il prezzo del gas da 30 a 300 euro, oltre ad avere bloccato le esportazioni di cereali e avere quindi fatto incrementare anche i prezzi del cibo.
Il punto cruciale, comunque, è che la proliferazione del numero di creditori riduce la fattibilità di piani coordinati per la rimodulazione del debito africano. È quindi difficile immaginare una riproposizione di quanto avvenuto sul finire del secolo scorso con l’iniziativa Heavily Indebted Poor Countries (Hipc) a opera del Fondo monetario internazionale (Fmi), grazie alla quale alcuni Paesi dell’Africa subsahariana ottennero una riduzione significativa del debito.
Per comprendere appieno la complessità dell’attuale crisi, è utile esaminare più da vicino due casi specifici — quelli del Ghana e dello Zambia — tanto più rivelatori in quanto entrambi i Paesi sono stati spesso considerati esempi virtuosi di sviluppo.
Nel 2002 il Ghana, dopo avere a lungo lottato con un debito nazionale particolarmente elevato, ha usufruito delle agevolazioni previste dall’Hipc. Sgravata dal debito che la teneva bloccata, e avvalendosi degli alti prezzi correnti delle materie prime, l’economia ghanese ha immediatamente iniziato a correre veloce. Nel corso di soli dieci anni, il Pil pro capite è passato da 477 dollari a 2.282. Questa forte crescita economica, tuttavia, ha incoraggiato il governo ghanese a finanziare il proprio deficit attraverso prestiti. In conseguenza di ciò, il debito ha ricominciato a salire rapidamente, raggiungendo il 40 per cento del Pil nel 2013 e il 59 per cento nel 2018. Sia una valutazione troppo ottimistica delle future entrate statali che l’incremento della «spesa politica» (sussidi energetici e aumenti dei salari nel settore pubblico) spiegano le scelte poco oculate della leadership ghanese.
A una situazione già compromessa si è aggiunta la pandemia, che ha inferto un duro colpo al Ghana, sfociando in una crisi: tra il 2019 e il 2022, il debito pubblico del Paese è passato dal 63,1 per cento al 93,3; l’inflazione è salita dal 7 per cento al 30, mentre la valuta nazionale, il cedi, ha perso il 50 per cento del proprio valore rispetto al dollaro. In un primo momento, nel febbraio 2022, il governo ghanese ha tentato di scongiurare l’ipotesi di un ritorno a testa bassa dall’Fmi: l’aspettativa diffusa era che il Ghana, «leone d’Africa», si fosse ormai messo alle spalle l’epoca umiliante degli aiuti finanziari. Già nel luglio di quell’anno, tuttavia, il presidente Nana Akufo-Addo si era dovuto arrendere all’evidenza e chiedere un prestito di tre miliardi di dollari al Fondo. Approvato il 17 maggio 2023, il sostegno dell’Fmi è servito a tenere a galla il Paese durante una serie di tortuosi negoziati con i creditori per la ristrutturazione del debito. Fortunatamente, un primo passo sulla strada della ripresa è stato compiuto nel giugno di quest’anno, quando il Ghana ha raggiunto un accordo con il comitato ufficiale dei propri creditori. Presieduto da Cina e Francia, quest’ultimo detiene circa il 20-25 per cento del debito bilaterale estero del Ghana. Ora, la nuova sfida sarà trovare un’intesa con gli obbligazionisti privati, tra cui figurano grandi società di investimento come BlackRock e Abrdn.
Simile per molti versi al caso del Ghana, l’esempio dello Zambia, un altro ammaccatissimo ex «leone d’Africa», dimostra ancora più chiaramente quanto un’economia in via di sviluppo, specialmente se gravata dal debito, risulti vulnerabile agli choc esterni. Come il Ghana, anche lo Zambia ha beneficiato delle iniziative di riduzione del debito dei primi anni Duemila, tanto che nel 2006 il debito estero del Paese era stato a tutti gli effetti azzerato. Questo netto miglioramento della situazione finanziaria, unito al prepotente sviluppo dei settori minerario e agricolo, ha comportato una fase di forte crescita economica. A partire dal 2011, tuttavia, in seguito all’ascesa al potere del Patriotic Front, un partito a forte vocazione populista, la spesa pubblica ha ripreso a salire. Oltre a mosse «elettoralistiche» quali l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici e il sovvenzionamento del carburante e del mais, ha pesato molto anche l’avvio di un mastodontico programma di nuove costruzioni stradali dal valore complessivo di 5,6 miliardi di dollari, in parte finanziato da banche cinesi.
Nello stesso anno, lo Zambia, a lungo classificato dall’Fmi come «Paese a basso reddito», era stato promosso al rango di «Paese a reddito medio-basso». Questo successo apparente si è rivelato un’arma a doppio taglio, poiché ha privato lo Zambia della possibilità di continuare ad accedere a prestiti a basso tasso di interesse da fonti multilaterali, costringendolo a contrarre prestiti a tassi molto più elevati sul mercato finanziario. Secondo The Road to Zambia’s 2020 Sovereign Debt Default, un rapporto ad opera dello Zambia Institute for Policy Analysis e del già menzionato Finance for Development Lab, la causa principale della crisi del debito zambiano risiede proprio in questo «passaggio a prestiti più costosi, associato a una crescita economica fiacca e a una debole gestione delle finanze pubbliche».
Nel 2015 il Paese è stato colpito da una grave siccità che ha danneggiato pesantemente i settori agricolo ed energetico. Poiché la maggior parte del fabbisogno di energia elettrica dello Zambia è coperto dalle centrali idroelettriche, la produzione è stata ridotta del 30 per cento, il che ha praticamente paralizzato le attività dell’industria mineraria. Un calo temporaneo del prezzo del rame sul mercato mondiale ha aggravato ulteriormente i problemi, e nel corso di pochissimi anni (2016-2019) il debito pubblico dello Zambia è passato dal 60,6 per cento del prodotto interno lordo a un insostenibile 120 per cento.
Nel novembre del 2020, quando gli effetti della pandemia di Covid-19 hanno iniziato a farsi sentire pesantemente, il governo dello Zambia non ha avuto altra scelta che fare default sul proprio debito. La saga della ristrutturazione del debito zambiano inaugurata dal default del 2020 si è protratta fino al marzo 2024, poiché si è rivelato eccezionalmente difficile per i vari creditori del Paese — multilaterali, bilaterali (soprattutto cinesi) e commerciali — pervenire a un accordo condiviso.
Bastano pochi dati per comprendere i rovinosi effetti sociali delle crisi debitorie ghanese e zambiana. Tra il 2019 e il 2021 il Ghana ha speso più soldi per il servizio del debito di quanti ne abbia potuti investire in istruzione o sanità, mettendo a rischio i reali, anche se lenti, progressi realizzati fino a quel momento. Ad esempio, gli anni di scolarizzazione dei ragazzi e delle ragazze ghanesi sono tornati, rispettivamente, ai livelli del 2009 e del 2011, ovvero 13 e 12,6. Nello Zambia la situazione è simile: nel 2021, la quota della spesa totale destinata al servizio del debito è stata di circa il 40 per cento, quasi il doppio di quanto il governo zambiano spende per sanità e istruzione.
Le ragioni dell’attuale crisi del debito in Africa sono molteplici e intricate. Hanno a che vedere con l’espansionismo economico cinese e con la spregiudicatezza dei prestatori commerciali, ma chiamano anche in causa le responsabilità dei gruppi dirigenti africani e gli sprechi della spesa clientelare. Un discorso a parte, invece, meriterebbe il lascito del periodo coloniale, decisivo nell’avere relegato il continente al ruolo di esportatore di materie prime e nell’averlo reso cronicamente vulnerabile alle fluttuazioni dei prezzi sui mercati internazionali.
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