Un francese su dieci, la democrazia senza cittadini
14 Giugno 2022Newsletter di Bellingcat
14 Giugno 2022
Si assiste al lento declino di quella che fu la potenza egemone della seconda metà del Novecento. Un processo che sarebbe forse addirittura dirompente, se non fosse attutito dal “secolo lungo”, cioè dalla permanenza, in questo primo scorcio del Ventunesimo, delle contraddizioni – ovvero delle ragioni di scontro a livello internazionale – ereditate dal Ventesimo secolo. C’è qualcosa di paradossale in una politica estera come quella dell’amministrazione Biden, che si preparava a una guerra fredda con la Cina – basata su una competizione economica, oltre che sulla dissuasione militare –, e che invece si è trovata ad affrontare una questione caldissima come quella dell’invasione dell’Ucraina, la quale proviene dritto dritto dalla storia di lungo periodo della dissoluzione del mondo sovietico e delle sue guerre intestine. Qualcosa di paradossale ma anche di provvidenziale. Gli Stati Uniti d’America, infatti, hanno sempre avuto bisogno di essere un “impero del bene” contro un “impero del male”: è consustanziale alla stessa nozione di “Occidente libero” che ci sia, dall’altra parte, un mondo oscuro e oppressivo cui contrapporsi. Se Putin non si fosse palesato da sé come quel maniaco panrusso capace di un bullismo geopolitico fondato sul possesso dell’arma nucleare, si sarebbe quasi dovuto inventarlo, come in passato si sono costruiti altri mostri (un nome fra tutti, quello di Saddam Hussein, da piccolo despota locale promosso a minaccia planetaria), al fine di dare carburante propagandistico a una potenza sempre più priva di missione.
Così una Nato che vivacchiava tra la perdita di senso in Europa e la sconfitta in Afghanistan, è ritornata prepotentemente in auge, e perfino Paesi come la Svezia e la Finlandia ora chiedono di entrarvi. Nell’interesse degli Stati Uniti, la guerra in Ucraina deve durare – sebbene i suoi obiettivi non possano essere affatto chiari, mentre solo con una specie di “pari e patta”, spingendo Putin a un tavolo “di pace”, si potrebbe arrivare a indebolirlo politicamente, rendendo evidente – anzitutto agli occhi degli stessi russi – come sia negativo il bilancio, in termini di distruzioni e perdita di vite umane, dell’aver messo le mani su una porzione di territorio, in fin dei conti, limitata.
Ma quando comincia, propriamente, il declino americano? Senza risalire troppo indietro nel tempo, si può dire che abbia inizio dall’11 settembre 2001: da quella scomposta reazione all’attentato, indotta da una presidenza molto sbiadita e da una piccola banda di ideologi (i famigerati neocons, in parte allievi del filosofo ebreo-americano Leo Strauss), che condussero prima alla guerra in Afghanistan contro un regime, quello talebano, con cui una ventina d’anni dopo non si è potuto far altro che venire a patti; e successivamente, nel 2003, all’invasione dell’Iraq per buttare giù un dittatore che con l’attentato non c’entrava nulla. Un progetto neo-imperiale – dall’esito completamente fallimentare, se si pensa agli sviluppi di quelle guerre, anche nei termini di un rafforzamento delle posizioni islamiste radicali a cui si pretendeva di contrapporsi – che avrebbe mirato a ridisegnare completamente un’area ancora strategica per via della vecchia dipendenza dell’economia occidentale dagli idrocarburi. L’Europa nel complesso si adeguò, trascinata dalla potenza americana in due guerre insensate.
Non ci fu solo questo. Con le extraordinary renditions (cioè con i sequestri, le torture e le consegne illegali di presunti terroristi a Stati non propriamente democratici, quando non con la loro detenzione nelle basi segrete della Cia sparse per il mondo), e con la costruzione dell’inferno di Guantánamo, gli Stati Uniti smarrivano la misura del loro tipico mix di violenza e spirito liberale, a tutto vantaggio della prima. Un deciso sbilanciamento verso il menefreghismo circa lo Stato di diritto e verso la crudeltà fine a se stessa – di cui i sadismi nella prigione di Abu Ghraib, nei confronti dei prigionieri di guerra iracheni, resteranno un simbolo – che probabilmente è all’origine, insieme con altri fattori, di una perdurante ondata di violenza “mimetica” nella vita quotidiana americana, che prende la forma di folli sparatorie e uccisioni di massa, spesso sullo sfondo di un rinnovato razzismo.
Si dice che dipenda dalla diffusione delle armi. Certamente dipende anche da questo, ma prima di tutto si tratta di cowboy impazziti. Il mercato delle armi è da sempre libero negli Stati Uniti, il loro uso è diventato nel tempo sempre più nefasto. Ciò sarebbe sufficiente per parlare di una decadenza dello spirito americano, di una corruzione del suo “sogno” – espresso oggi più da Trump, e dai suoi simpatizzanti che danno l’assalto a Capitol Hill, che da Biden. Per chi credeva nella favola di una “democrazia americana” al di sopra dei conflitti, dev’essere stato un duro colpo vedere il suo massimo tempio istituzionale oltraggiato dalla violenza. Per noi – che abbiamo criticato senza sconti il sistema presidenzialistico, i riti delle primarie, e perfino il tranquillo bipolarismo vigente, fino a non troppo tempo fa, tra repubblicani e democratici – si è trattato solo della conferma di una vecchia consapevolezza: bisogna evitare che una caduta finale degli Stati Uniti d’America trascini con sé l’Europa e tutto ciò che di meglio essa ha prodotto (a cominciare dal socialismo).
Purtroppo nel nostro continente, abituato a considerarsi “vecchio”, tarda a farsi strada la coscienza del processo involutivo americano. Ma tra non molto gli Stati Uniti saranno superati economicamente dalla Cina. E se seguiteranno a scherzare col fuoco in Ucraina – pur senza che si arrivi a una guerra mondiale –, stancheranno i loro alleati più di quanto non riescano a sfibrare la leadership russa. L’Unione europea dovrà giungere alla fine a una maggiore integrazione sull’insieme delle questioni aperte, a cominciare da quella di un esercito europeo. Parliamo di qualche anno, non di decenni. Il “secolo lungo” serve oggi a trattenere gli Stati Uniti al di qua della catastrofe, in mancanza di quella svolta che solo una presidenza Sanders (forse) avrebbe potuto imprimere alla politica americana, dandole nuova sostanza.