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9 Luglio 2023Marco Bellocchio
si prepara alla nuova edi-zione del suo festival a Bobbio, nel Piacentino, con proiezioni e labora-tori per giovani registi. Un’occasione per riflet-tere su sale e pellicole, serialità e tradizione: «In Italia si fanno cose interessanti. E vedo il biso-gno della presenza fisica di chi ha realizzato il film o vi ha partecipato. Le discussioni erano decadute, Nanni Moretti le prendeva in giro. Adesso sono un segno di energia»
di Cecilia Bressanelli
«Mi è capitato questo destino di aver voglia di fare alla mia età. Lo sottolineano sempre: “Marco Bellocchio, 83 anni”. A novembre saranno 84». Il regista risponde con una battuta a «la Lettura». Lo aveva detto a maggio, ritirando il David di Donatello per la regia del film/serie Esterno notte, sul caso Moro: «L’importante è continuare a lavorare, fare delle belle cose, non fermarsi. Io mi auguro di avere ancora un po’ di tempo per fare delle cose belle». A fine maggio è arrivato nei cinema anche Rapito, film — premiato ai Nastri d’argento e, nei giorni scorsi, con il Globo d’oro della stampa estera in Italia insieme alla serie tv — sul caso del piccolo Edgardo Mortara, bambino ebreo battezzato in clandestinità e, nel 1858, sottratto alla famiglia dallo Stato pontificio per essere cresciuto come cattolico. E Bellocchio, maestro del cinema europeo, continua a cercare cose belle.
Lo farà nella sua Bobbio, nel Piacentino, il borgo in val Trebbia dove nacque nel 1939, indimenticabile set per l’esordio I pugni in tasca, nel 1965, e di molte altre storie. Dal 28 luglio al 6 agosto mentre si svolge la 26ª edizione del Bobbio Film Festival, da lui diretto con il figlio Pier Giorgio e Paola Pedrazzini, Bellocchio torna a tenere di persona lo storico corso in regia cinematografica, progetto di Fondazione Fare Cinema che per il secondo anno si svolge sotto l’egidia di Bottega Xnl, la sezione di cinema e teatro, diretta dalla stessa Pedrazzini, del centro Xnl Piacenza. Negli anni, oltre a Bellocchio, docenti del corso sono stati registi come Gianni Amelio, Leonardo Di Costanzo, Giorgio Diritti, Daniele Ciprì… In ogni edizione hanno girato un cortometraggio che porta la loro firma, affiancati da giovani apprendisti registi.
Che cosa rappresenta per lei oggi il Bobbio Film Festival, nato come laboratorio nel 1995?
«Ho sempre vissuto e colto in modo parallelo e integrato il Bobbio Film Festival in sé, ovvero la rassegna dei film (usciti nelle sale nell’ultimo anno, che vengono presentati da registi e protagonisti, ndr), con la sperimentazione, cioè il lavoro con i giovani nel corso di regia. Quest’anno mi dedicherò, facendo il mio mestiere in modo appassionato, al corto che realizzeremo con il gruppo di giovani che vi parteciperanno. Ma seguirò parallelamente il festival con la mia presenza durante le proiezioni, tra le quali ci sarà anche quella di Rapito».
A Bobbio si vedranno anche «Il signore delle formiche» di Gianni Amelio, «Diabolik. Ginko all’attacco!» dei Manetti Bros., «Mia» di Ivano De Matteo, «Margini» di Niccolò Falsetti, «Scordato» di Rocco Papaleo, «Orlando» di Daniele Vicari, «L’ombra di Caravaggio» di Michele Placido… E oltre al corso di regia Bottega Xnl-Fare Cinema, nei giorni del festival si terrà il consueto Seminario di critica cinematografica e, per la prima volta quest’anno, anche una parte del Corso di sceneggiatura che si svolge durante tutto l’anno a Piacenza negli spazi di Xnl. Ancora una volta nel borgo ci si immergerà nel cinema…
«L’unione tra la rassegna e il corso è lo spirito di questa iniziativa nata in modo casuale, improvvisata, che però ha avuto il merito, anche grazie alla direzione di Paola Pedrazzini, della continuità. Perché questi piccoli eventi è importante non si interrompano mai: così si rafforzano, il pubblico torna. Sono molto contento che ci siano numerosi festival locali sparsi per tutta l’Italia. Noi abbiamo sempre avuto una grossa partecipazione. Per molti l’estate è il tempo per scoprire film che si sono persi durante l’inverno non perché erano distratti, ma perché dovevano pensare ad altre cose. Avrebbero magari potuto vederli più tardi sulle piattaforme, però in questa, che non è una semplice rassegna, ma un confronto con gli autori e gli attori, hanno l’occasione di vederli in un cinema e di discuterne con i protagonisti».
La ricerca di un confronto con gli autori incontra l’intento formativo del laboratorio?
«Più ancora che in passato, forse anche a causa del Covid, oggi si è accentuata la ricerca della presenza fisica dell’autore o dell’attore in sala. Lo sto vedendo con le presentazioni di Rapito, a cui mi sono dedicato di più che in passato: mi sono sempre trovato davanti a platee complete. Questo non perché noi siamo dei fenomeni da circo che attirano il pubblico, ma perché c’è proprio la necessità di vivere la presenza fisica di chi ha realizzato o partecipato al film che si è proiettato. Vedo sempre dibattiti vivaci, lunghi, che l’esercente deve spesso interrompere per ragioni tecniche. In tanti fanno domande, vogliono sapere. Il famoso dibattito che era decaduto negli anni Sessanta, che era stato deriso anche da Nanni Moretti (“Il dibattito no!”, ndr) adesso è attraente… A Roma, al Cinema Troisi, abbiamo riproposto un mio film certamente non commerciale, ma da me molto amato, Marx può aspettare (2021), e pure in quel caso la sala era piena, tutti sono rimasti e il dibattito sarebbe continuato, ma abbiamo dovuto interromperlo perché dopo c’era un’altra programmazione. Anche al termine di Rapito tutti rimangono in sala e questo mi incoraggia a continuare a incontrare gli spettatori nelle arene estive che sono un’altra bella possibilità».
Nell’era delle piattaforme non si è quindi persa la ricerca dell’esperienza condivisa?
«Non è solo il caso degli ingenui e degli sprovveduti che chiedono il classico selfie che non va negato a nessuno, ma è proprio un discorso di elaborazione, di riflessione. Parlo del mio film perché trovo una reazione molto calda di partecipazione, ma il fenomeno è molto comune. È come se, in generale, ci fosse bisogno del contatto fisico con la persona in carne e ossa, perché ormai siamo abituati a parlare attraverso le chat, gli Zoom, a cui ci aveva costretto anche il Covid».
La pandemia ha di fatto cambiato il paradigma?
«Sì. Gli esercenti si lamentano ancora che non si è tornati ai livelli quasi miracolosi del pre-Covid, in cui al botteghino c’erano risultati forti. Ma, seppure lenta, c’è una ripresa e si spera che con l’anno prossimo si ritrovino quei livelli».
I dati Cinetel dicono che il primo trimestre del 2023 ha registrato un +50,5% di presenze nelle sale rispetto lo stesso periodo del 2022. Il confronto degli incassi con il 2019 registra ancora un -38%, ma si conferma il trend di crescita. Tolti però i dibattiti, gli incontri con gli autori, l’esperienza della visione di un film sul grande schermo di una sala cinematografica è ancora qualcosa che gli spettatori cercano?
«Questo non lo so. Di fatto eviterei qualsiasi mistica della sala, che diventa una dimensione nostalgica. È però molto importante fare una programmazione ragionata, coinvolgendo specifiche categorie come ad esempio è stato fatto con gli amanti della montagna, i boyscout o altre associazioni per un film come Le otto montagne. Questo tipo di attenzione da parte degli esercenti è un attivismo, una fantasia imprenditoriale, che dà i suoi frutti. Poi, naturalmente, le sale devono essere perfette. Più che quegli esperimenti in cui si può cenare mentre si guarda il film, bisogna favorire la proiezione con immagini e suono perfetti che permettano allo spettatore di immergersi nel film insieme agli altri spettatori. E questo insieme è importantissimo. La pandemia è stata un po’ come una guerra. Nelle grandi crisi ci sono realtà che scompaiono, altre che emergono, si rafforzano. Poi, è chiaro, all’origine devi sempre fare dei buoni film».
Ma come sta oggi il cinema italiano?
«È come se in questa domanda ci fosse una riflessione, non dico su una crisi irreversibile, ma su una crisi e quindi un tramonto. A me non pare. Anche per certi aiuti finanziari dello Stato, fino a quest’anno si è prodotto tanto. Questo non è certo garanzia di qualità. È poi vero che molti prodotti si perdono, neanche si vedono, ma questo discorso valeva anche in passato. Per me è quasi più facile coglierlo: è come se fossi, non al capolinea, ma in prima linea e vedessi alle mie spalle tutta una serie di generazioni che si sono susseguite e un po’ tutte, anche quelle più giovani, sono coperte da grandi registi. Rattrista un po’ che i giovani non cerchino strade nuove ma imitino le opere dei vecchi. La commedia ormai è in aperta crisi, dà risultati modesti, ma ancora ci sono giovani che cercano di imitare il genere. L’epoca dei cinepanettoni è finita: bisogna cecare strade nuove».
Ma ci sono, secondo lei, giovani che le stanno cercando, le strade nuove, e magari le hanno trovate?
«Certo. Ci sono tanti giovani bravi che prendono molto sul serio il cinema e non si accontentano di imitare il cinema dei padri. Magari poi sbagliano il film ma hanno il coraggio di rischiare. C’è una gioventù in marcia».
Quest’anno a Bobbio per il corso di regia prenderà di nuovo a bottega giovani registi, e dopo quelli realizzati negli anni passati — alcuni confluiti nei film «Sorelle» (2006) e «Sorelle mai» (2010) — girerà un nuovo cortometraggio…
«Tre anni fa avevo fatto un corto intitolato Se posso permettermi, interpretato da Fausto Russo Alesi (che in Esterno notte è Francesco Cossiga e in Rapito il padre di Edgardo Mortara, ndr). Quest’anno voglio girare il seguito, anche con altri attori amici i quali possono essere estremamente preziosi nel rapporto con i giovani: Fausto, Fabrizio Gifuni, Edoardo Leo (che ancora non conosco ma che ha accettato), Barbara Ronchi, mio figlio Pier Giorgio. Trovandosi davanti a grandi attori i giovani possono imparare, arricchire la propria inesperienza con questa breve esperienza. In dieci giorni vengono immersi nella realizzazione di un film. Rispetto i teorici e i critici, ma io so fare solo questo, mi metto subito in campo e il rapporto diventa diretto. Nel 90 per cento dei casi, ho visto ragazzi che si inseriscono ed entusiasmano e molti poi continuano l’avventura del cinema a Milano o a Roma».
Quali sono le maggiori difficoltà che le nuove generazioni possono incontrare?
«Questa democrazia esasperata, in cui tutti con un cellulare possono fare un film, fa saltare quel tempo della formazione che invece per la mia generazione era necessario. Quando arrivai a Roma non sapevo assolutamente niente, ed è stato utile imparare al Centro sperimentale la tecnica nella sua elementarità. Io avevo visto molti film, e questo è fondamentale, come anche conoscere la storia del cinema. Adesso, a parte il fatto che si possono vedere tutti i film che si vogliono, con quell’oggetto che tutti hanno in mano si può avere l’illusione di saltare il periodo di apprendistato. Inoltre c’è un problema di profondità. Non bisogna generalizzare, ma è abbastanza diffuso. Me lo dice Francesca (Calvelli, compagna di Bellocchio e montatrice dei suoi film, ndr) che insegna montaggio al Centro sperimentale: spesso i giovani non sanno quasi chi sia Federico Fellini, non hanno visto un film di Michelangelo Antonioni, di Charlie Chaplin… Colpisce che non realizzino che nel voler essere registi questa conoscenza non è solo libresca, ma formativa».
Che film consiglierebbe loro di vedere?
«Sarebbe meglio chiedere a uno storico. Nella mia esperienza, formativi sono stati il muto, l’epoca d’oro del cinema, tutto il cinema espressionista tedesco. Poi ognuno se ha talento, personalità, va per la sua strada».
Per raccontare i giorni del rapimento di Aldo Moro, in «Esterno notte», ha scelto la narrazione ampia della serialità. Ha confessato che guarda le serie tv e che alcune le piacciono…
«La serialità mi piace quando è bella. Ma c’è tanta spazzatura. Ne ho viste più di frequente anche io nel periodo del Covid. Ci sono serie tv magnifiche, sia di tipo intimistico che di tipo spettacolare: si può fare veramente del grande cinema facendo le serie, non c’è più differenza. Il mio gusto va verso la complessità psicologica dei personaggi, le grandi serie come Il Trono di Spade posso ammirarle ma non mi coinvolgono per niente. Ho visto con piacere ma con estremo ritardo Breaking Bad. Ci sono prodotti di grande qualità assolutamente non inferiori al cinema».
L’abitudine alla serialità influenza il mondo di fare cinema?
«L’influenza è reciproca e non di per sé negativa. A me, che vengo da altre scuole ed esperienze, non piace il ritmo parossistico che spesso è superficiale e nasconde il vuoto totale. Purtroppo però temo che questo incontri il gusto del pubblico, che non si accorge che dietro al ritmo sfrenato c’è il nulla. Non dico che bisogna annoiare gli spettatori, sia chiaro, ma quando corri si vede. Nel grande cinema ci sono certo sequenze sfrenate: se pensiamo a Orson Welles o Sergio Leone, si passa da grandissime pause a uno scatenamento di montaggio; però siamo sempre all’interno di realtà umane. Se questo viene meno allora si ha la pubblicità. Molti la imitano e dalla pubblicità si può imparare, ma poi, perché non sia superficiale, bisogna metterci dentro qualcosa».
Su «la Lettura» della scorsa settimana, il regista Davide Ferrario ha parlato di «fine della fine»: la serialità ha cambiato il modo di costruire e percepire — da parte degli spettatori — le storie: non si cerca la fine, il compimento catartico, ma si tende a portarle avanti all’infinito.
«Ha ragione. Lì sta il calcolo di tante serie di lasciare aperta la possibilità. Non l’avevo ancora visto ma l’altro giorno ho recuperato il secondo Avatar di James Cameron. Tutto è sorpresa, si passa di stupore in stupore, una meraviglia barocca stupefacente dietro a cui si nasconde il vuoto. La storia in sé è banale. E poi anche lì alla fine del film il cattivo viene tenuto in vita perché si suppone che ci sarà un terzo episodio in cui ritornerà. Colpisce che i dialoghi, i personaggi siano sostanzialmente banali. Ma lo spettacolo è talmente grandioso e stupefacente, per cui ti chiedi continuamente come avrà fatto, come è possibile, quanti miliardi avrà speso… Un colpo di scena dietro l’altro in uno spettacolo di tre ore, per una storiella che si poteva riassumere in dieci minuti».
Abbiamo invece ancora bisogno di grandi storie?
«Sì. Ma è sempre più difficile. La storia bisogna trovarla e poi a quella storia bisogna applicare qualcosa di personale. Al di là di quello che accadrà con Rapito — che è ancora un film in cammino e verrà presentato in Europa, poi anche negli Stati Uniti — il punto di partenza è stata una grande storia. Però in questa grande storia sicuramente ho messo anche una mia storia, pur non essendo ebreo ma un ex cattolico. Sono sempre più convinto che sia così: la partenza deve essere una grande storia da cui far scaturire qualcosa di molto personale».
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