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di Angelo Panebianco
Tempi poco propizi per le sinistre in Europa. In meno di un anno i conservatori hanno vinto in Italia, Svezia, Finlandia, Grecia. Si apprestano a vincere in Spagna. In Germania la coalizione a guida socialdemocratica è in affanno, la Cdu è in ascesa. L’incognita riguarda il futuro dell’inquietante formazione di estrema destra (e filoputiniana) Alternative für Deutschland. La rivolta in Francia ha come principale bersaglio il presidente Macron. Ma c’è da scommettere che a ricavarne i maggiori vantaggi sarà Marine Le Pen (in veste di salvatrice della patria), non l’estrema sinistra di Mélenchon. Solo in Gran Bretagna, fra i grandi Paesi d’Europa, il partito conservatore rischia di lasciare il posto, quando ci saranno le elezioni, al partito di sinistra, il Labour. Ma il Labour è di nuovo competitivo per avere scelto, dopo l’inconcludente estremismo dell’era Corbyn, di riposizionarsi al centro, di ripudiare i massimalismi. Come è nella tradizione laburista. E in Italia? Quale futuro possono avere le formazioni più o meno radicali (il termine è ambiguo e generico, serve solo a rendere l’idea) che occupano gran parte degli scranni dell’opposizione? In un Occidente all’epoca terremotato da Brexit e da Trump, nel 2018, i 5 Stelle ottennero la maggioranza relativa. Ma a differenza dell’attuale partito di Giuseppe Conte non erano una formazione di sinistra.
Raccoglievano scontenti da sinistra a destra. Tanto è vero che fecero un governo con la Lega. Oggi i 5 Stelle sono (si presentano come) una formazione di sinistra radicale. Un’altra cosa. Una parte dei loro elettori si è ridistribuita fra i partiti di destra, una parte si è rifugiata nell’astensione. E una quota rilevante di giovani già votanti 5 Stelle ha contribuito al successo di Elly Schlein alle primarie del Pd. La neosegretaria si è lanciata subito all’inseguimento di Conte. Con un’unica missione: prendere più voti di lui alle prossime elezioni europee.
Lasciando da parte il Terzo polo, destabilizzato dal conflitto fra Calenda e Renzi, e sul cui futuro neppure il più accreditato indovino può fare pronostici, a sinistra la competizione è fra Conte e Schlein. Ossia, fra due varianti della sinistra radicale. La più interessante è rappresentata dal Pd, o meglio dal suo attuale gruppo dirigente. Non solo perché è alla guida del partito più forte dell’opposizione. Soprattutto perché ha fatto del Pd qualcosa che somiglia a un corpo umano su cui sia stata innestata una testa che con quel corpo non ha molto in comune. Pesa la frattura che si è manifestata fra gli iscritti (in maggioranza favorevoli a Stefano Bonaccini) e gli elettori alle primarie, schierati con Elly Schlein. Il partito degli amministratori di qua, il partito-movimento di là. Un’attitudine più pragmatica, più attenta alle esigenze di governo di qua, più enfasi su ideologia e identità di là.
È una frattura difficilmente componibile. Gli amministratori sono la parte solida del Pd, che ne garantisce il radicamento. E che, salvo eccezioni, non è particolarmente compatibile con il movimentismo di Schlein. Le vittorie più importanti del Pd sul piano locale, da quando Schlein è segretaria, sono state quelle di Brescia e di Vicenza: in nessuno dei due casi chi ha vinto è assimilabile alla segretaria e al suo gruppo. Al tempo stesso, però, c’è un nucleo duro di elettori (non solo giovani) che nulla sa farsene del pragmatismo, che non voterebbe per un partito che somigli al Labour di oggi o a una qualunque socialdemocrazia europea.
Una cartina di tornasole per valutare gli atteggiamenti di questa parte del popolo Pd è la sua avversione nei confronti di Matteo Renzi, forse il politico più detestato dai sostenitori di Schlein. Più detestato anche degli esponenti della destra. Quale fu la colpa di Renzi all’epoca della sua segreteria? Avere tentato di mettere fuori gioco la componente massimalista, di liberare il «Pd di governo» dai condizionamenti del «Pd di lotta». Era il tentativo di superare il compromesso fra le diverse anime che avevano dato vita al Pd. Sul fallimento dell’operazione pesarono gli errori di Renzi. Ma pesò anche, e forse soprattutto, l’indisponibilità di tanti a seguirlo su quella strada.
Secondo un detto celebre «chi non conosce la storia è condannato a ripeterla». La storia della sinistra italiana dice che, nel mercato delle opinioni, a sinistra, la domanda di messianesimo è sempre stata assai forte. Stare all’opposizione coltivando l’identità piuttosto che andare al governo (nazionale) diluendola, è una scelta che, tradizionalmente, piace a tanti. Quando il Pd si è presentato come, ed è stato a lungo, partito di governo, anzi il partito di governo per eccellenza, ha finito per fare lievitare delusioni e rigetto.
La storia pesa. Il partito comunista, senza possibilità di andare al governo, fu la forza dominante dell’opposizione durante la Guerra fredda. Gli esperimenti socialdemocratici (da Saragat a Craxi), volti a ridimensionarlo, fallirono. Inoltre, sia pure in condizioni mutate, l’esperienza del Pci ci dice anche altro. Pur all’interno di un involucro ideologicamente comunista, gli amministratori locali delle allora dette «zone rosse» praticavano politiche poco distinguibili da quelle socialdemocratiche sperimentate in altre parti d’Europa. Con tanto di corporativismo, ossia collaborazione locale fra capitale e lavoro garantita dal partito: altro che «lotta di classe». Per dire che il divario fra identità e amministrazione, fra messianesimo e esigenze di governo, è cosa antica, da sempre presente a sinistra.
Poiché al momento nessuno immagina la possibilità di elezioni anticipate, passerà l’equivalente politico di un’era geologica prima che il governo del Paese torni ad essere oggetto di contesa. Nel frattempo, può accadere di tutto. Ma se l’attuale assetto del Pd dovesse durare fino ad allora difficilmente potrebbe impensierire la coalizione di governo. O, per lo meno, tale coalizione potrebbe alla fine risultare sconfitta solo per demeriti propri, non per merito di una opposizione seriamente competitiva. Nel frattempo, Europee a parte, se nelle future tornate locali il Pd continuerà ad inanellare sconfitte, l’insofferenza del partito degli amministratori crescerà di certo.
Sul futuro di tutti pesa però una grande incognita: l’esito della guerra in Ucraina. Se vinceranno gli ucraini, non solo i filo-putiniani, ma forse anche i «malpancisti», quelli che hanno sì appoggiato Zelensky ma accompagnando l’appoggio con messaggi ambigui e contraddittori, perderanno consensi. A sinistra e a destra. Se vincerà la Russia, la musica sarà diversa. È sempre bene ricordare che non tutto ciò che accadrà in Italia dipenderà solo da noi e dalle nostre scelte.