In questi giorni terribili, in cui le bombe israeliane continuano a cadere su una Gaza ormai quasi totalmente distrutta e sui suoi abitanti indifesi e in cui Israele appare sempre più isolata di fronte al crescere della reazione dell’Europa e del mondo, un nuovo dilemma si propone all’opinione pubblica israeliana dando vita a un dibattito finora assente, quello sull’obbedienza. Cosa significa obbedire agli ordini ricevuti quando questi ordini ci appaiono come ingiusti e immorali? Si può, anzi si deve, rifiutare di obbedire? E soprattutto, come valutare l’ingiustizia di un ordine ricevuto?
La questione nasce dalle affermazioni di Yair Golan, già alto ufficiale dell’esercito e ora leader del Partito dei Democratici, che accusa il governo di crimini di guerra e contro l’umanità e sostiene che «non è normale uccidere i bambini per passatempo». Mentre Netanyahu lo accusa apertamente di antisemitismo, con velate minacce alla sua vita stessa, una parte importante dello stesso centro lo attacca per aver accusato non soltanto il premier ma lo stesso esercito, tanto che Golan torna parzialmente indietro sulle sue affermazioni e precisa di aver voluto accusare solo il governo, non l’esercito. È a questo punto che interviene su HaAretz Gideon Levi, il giornalista più noto e il più impegnato da anni nella difesa dei diritti dei palestinesi. Ci si può rifiutare di obbedire ad ordini di questo genere, scrive. Se i soldati non avessero obbedito a questi ordini, la situazione a Gaza non sarebbe arrivata a questo punto.
Questa finora la questione e non è escluso che si allarghi e diventi centrale nel dibattito interno su Gaza. Ma vorrei ricordare che, anche se il problema dell’obbedienza si è posto oggi solo a proposito dei cosiddetti “refusnik”, i richiamati alle armi che rifiutano di prestare servizio a Gaza e sono per questo incarcerati, questo non è un problema inedito nella storia di Israele. Era intanto, quello della necessità di obbedire, la difesa avanzata da tutti i nazisti, a cominciare da quelli processati a Norimberga per finire con Eichmann. La questione si pose molto drammaticamente in Israele quando, il giorno in cui iniziarono le ostilità della guerra del 1956, un gruppo di palestinesi che tornavano dal lavoro nei campi a Kefar Kassem, ignari che il coprifuoco fosse stato anticipato, furono massacrati dall’esercito, donne e bambini compresi, in tutto 49. L’episodio suscitò una forte reazione nel Paese, molti parlarono di comportamento “nazista”, il premier Ben Gurion si scusò in Parlamento, dove fu anche fatto un minuto di silenzio. I responsabili della strage furono processarti e condannati, anche se uscirono dopo non molto di prigione. Ma l’importante è quanto sentenziò il giudice, Benyamin Halevy, richiamando proprio l’obbligo di non obbedire ad ordini ingiusti:
«Si capisce che ci si trova di fronte ad una manifesta illegalità quando una sorta di segnale sventola come un vessillo nero sull’ordine in questione e avverte: “Proibito”».
Questo vessillo nero, che segnala i crimini di guerra e quelli contro l’umanità, oggi sventola sopra Gaza. Non la vediamo, eppure è lì. Ma troppi hanno dimenticato il suo significato. Eppure, passare anche solo per un breve momento dalla sacrosanta accusa ai membri di questo governo alla riflessione sulla questione se sia proprio necessario obbedire agli ordini ingiusti, e su quali siano i confini tra giusto ed ingiusto, potrebbe essere un modo per estendere e approfondire la protesta, per dare sempre maggior voce a quanti già si battono, e per riportare il discorso morale al centro del dibattito. E, forse, per fermare questo inutile e indegno massacro. Che, contrariamente a quanto ha detto cinicamente Bibi parlando dei mancati rifornimenti a Gaza, deve essere fermato perché uccidere i civili è un crimine, non per impedire che Israele venga annoverato fra gli Stati canaglia.