La copertina
Magda Szabó
Simonetta Scandivasci
Magda Szabó ha più di ottant’anni quando scrive Per Elisa. È il suo ultimo romanzo e ne è consapevole. Per questo ci mette dentro, della sua vita, i momenti, le persone, gli incontri, la Storia e le storie che le hanno dato la forma che ha avuto e che lei vede chiaramente, ora che il tempo che ha vissuto è maggiore di quello che le resta. È una forma allungata e aperta. L’ultima pagina del libro non chiude con un punto, ma tre, quelli che chiamiamo “di sospensione” e che qui non sospendono bensì segnalano che c’è ancora da raccontare, da esser vivi, e che una vita non basta per un romanzo. Szabó non scrive mai per lasciare eredità, direttive, esempi. Lo fa perché è il suo modo, suo e basta, di stare dentro la Storia.
Il tratto fondamentale di tutta la sua letteratura, e soprattutto di questo romanzo, è l’apertura alla possibilità. È Cili ad incarnarla. La piccola Cili, l’orfana che a un certo punto il padre e la madre di Magdolna le mettono davanti dicendole solamente: «Ecco qui la tua sorellina. Bisogna volerle bene. D’ora in avanti di signorine Szabó ce ne sono due», ignari come sono della «foga omicida» con cui è gelosa.
Veniamo alla trama. È il 1920, l’Ungheria è stata mutilata di molti suoi territori, ripartiti soprattutto tra Romania e Cecoslovacchia, dal trattato del Trianon firmato dai Paesi dell’Intesa, vincitori della Prima guerra mondiale. In pochi giorni, quattordici milioni di ungheresi si ritrovano a non essere più ungheresi: clandestini in casa propria, irregolari a cui viene data la caccia, con ferocia e foga. Le città si riempiono di profughi, molti dei quali sono bambini che hanno perso i genitori. Cili è una di loro: un’orfana del Trianon, rimasta viva per caso, coperta dai cadaveri dei propri genitori – «dei suoi dati si conoscevano quei pochi trovati nei documenti in tasca al padre, quando avevano rimosso i genitori defunti da sopra la bambina esanime». Magda non è molto più grande di lei, eppure tra di loro c’è un abisso: Cili non parla neanche, Magdolna discute in latino con suo padre. Cili incarna quell’apertura alla possibilità che è il punto cruciale dei romanzi di Szabó.
Dal 1920 in avanti, per altri vent’anni quasi, Per Elisa segue le due sorelle. La storia della loro relazione, della loro disperazione prima nel vedersi costrette a vivere insieme e poi nel non poter, né voler più vivere separate, è la storia dell’Ungheria, della sua ricerca d’identità nelle persone e non nei confini, del suo tentativo di riappacificarsi con gli apolidi, i dispersi, i profughi.
Di quello che il Paese diventa con l’avanzata socialista, Szabó riporta un quadro storico assai chiaro. Pianta una telecamera nelle stanze della sua famiglia e da lì osserva e racconta come prima la prepotenza dei vincitori della guerra e poi l’intrusione socialista si siano infilate nelle case, nei pensieri, negli aneliti degli ungheresi, attentando a quel loro senso dolce per la vita, quel sentire raffinato che li ha resi parte del cuore della Mitteleuropa.
Szabó è stata una delle poche intellettuali ungheresi a non abbandonare il suo Paese quando il regime socialista prese a ficcare il naso nelle loro vite, a stabilire chi potesse scrivere e come si dovesse pensare. La letteratura mondiale ha ricevuto, da quegli autori (Ágota Kristóf, Sándor Márai), alcuni tra i libri più intensi e terribili sull’impossibilità di trovare un posto in cui sentirsi a casa quando si è costretti a fuggire dalla propria; su cosa sia l’esilio; sullo strazio di non riuscire più ad avere fiducia nell’appartenenza; sulla violenza che l’Europa, nel suo ricostruirsi dopo le due guerre mondiali, perpetrò sui popoli, tentando di convincerli che l’identità fosse un registro a cui potersi iscrivere o da cui potersi disiscrivere a proprio arbitrio.
Ágnes Heller, filosofa, scrisse una volta: «Sono donna, ungherese, ebrea, americana, filosofa: sono oberata da troppe identità». Lo scrisse negli stessi anni in cui a Szabó veniva impedito dal governo di pubblicare i suoi libri e lei, anziché andar via, decideva di restare e accontentarsi di fare l’insegnante, condannandosi a scontare il rimorso per non essere riuscita a incidere di più, ad arginare il male – «Sono rimasta un’osservatrice con i sensi di colpa», scriverà.
La reazione di Heller e quella di Kristóf e Márai, in Szabó trovano una sintesi straordinaria. Da una parte, infatti, in Per Elisa c’è l’attaccamento, quasi puerile, alle radici, e la difesa della loro immobilità. Dall’altra, c’è la messa in discussione della staticità come condizione essenziale dell’appartenenza e la stanchezza per un’identità sempre identica, pura, che non si sia mescolata con altre.
Il rapporto tra l’esistenza del singolo e la storia collettiva è un tema fondamentale per Szabó, come lo è stato per Elsa Morante, Pasternak, Tolstoj, autori che, non a caso, sono stati accusati di eccesso di patetismo, di debolezza ideologica, di impoliticità e anti-epicità dannose perché hanno mostrato, senza esitazione, senza remora, come la Storia, quella dei manuali, dei grandi eventi, dei Napoleone, assoggetti l’uomo e lo scardini. Lo hanno fatto romanzando la vita degli ultimi e la devastazione profonda, e intima, che la Storia, quando s’è fatta tragica, ha portato nel cuore di ogni uomo. In una lettera del 1982 a Elsa Morante, Adriano Sofri scrisse: «L’uomo è parte di un tutto infinitamente mobile e vivo, e la parte non può mai comprendere né dominare il tutto. In questo semplice fatto, si manifesta un potere che non si può non subire: esso significa il limite delle nostre forze e di ciò che possiamo fare e capire».
Il fuoco che arde nel cuore della piccola Magdolna è la fiamma della scoperta, entusiastica, che esistiamo nel rapporto con gli altri assai più che in quello con gli eventi. Una fiamma alimentata da un padre e da una madre che allevano le proprie figlie non educandole, ma civilizzandole. A questa liberalità l’Europa dovrebbe tornare a guardare.