Un discorso di fuoco di Benjamin Netanyahu all’Onu: «Siamo di fronte a selvaggi nemici che vogliono annientarci e a una palude antisemita». E, poche ore dopo, un bombardamento israeliano sul quartier generale di Hezbollah a Beirut, apparentemente con lo specifico obiettivo di uccidere il leader dell’organizzazione islamista filoiraniana, lo sceicco Hassan Nasrallah, che secondo i suoi collaboratori si sarebbe salvato.
Parole e fatti sembrano lanciare un messaggio da parte di Israele a due uditori diversi. Il primo è un messaggio alla comunità internazionale, per dire che lo Stato ebraico è determinato a difendersi da solo, come nella guerra scoppiata alla sua fondazione nel 1948, e che come allora ritiene il duplice conflitto contro Hamas a Gaza e contro Hezbollah in Libano, entrambi patrocinati dall’Iran, una lotta per la sopravvivenza. Il secondo è un messaggio interno, con cui il governo di Gerusalemme fa capire che, se Teheran risponderà attaccando direttamente Israele, Israele reagirà attaccando Teheran: «Siamo in grado di colpirvi», ha ammonito alle Nazioni Unite il premier israeliano, che ha costruito la propria popolarità in patria sull’immagine di “Mr. Sicurezza” e vuole ricostruirla dopo lo smacco del pogrom del 7 ottobre e di un anno di bombardamenti di Hezbollah dal giorno dopo. Secondo i sondaggi, che lo danno di nuovo in ascesa, ci starebbe riuscendo.
Dopo quasi un anno di guerra, il Medio Oriente è così arrivato al momento della verità. L’ultima chance di riannodare il filo della pace prima delle presidenziali americane del 5 novembre è la proposta di una tregua di 21 giorni in Libano, presentata a Israele e Hezbollah dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Israele ha valide ragioni per non accettarla:«Il ritorno a casa dei nostri sfollati è uno degli obiettivi fondamentali del conflitto», ripetono da giorni i massimi responsabili israeliani, e dopo appena tre settimane di tregua i bombardamenti del Nord dello Stato ebraico da parte di Hezbollah, che hanno costretto 80 mila persone ad abbandonare le proprie case, potrebbero riprendere.
Anche Hezbollah ha buoni motivi per non accettare una tregua temporanea: i bombardamenti cesseranno, afferma il movimento fondamentalista libanese, solo dopo che ci sarà un cessate il fuoco a Gaza. Interromperli ora verrebbe interpretato dai suoi seguaci come un abbandono della causa e dell’alleato palestinese. Il paradosso è che Israele non vorrebbe combattere una guerra su due fronti, a Nord contro Hezbollah, il gruppo paramilitare non governativo meglio armato della regione, a Sud contro Hamas. E nemmeno l’Iran vorrebbe essere coinvolto in un conflitto: Teheran usa la guerra “per procura” di Hezbollah, di Hamas e degli Houthi per attaccare Israele, ma non vuole scendere direttamente in campo per difendere i suoi affiliati libanesi, palestinesi e yemeniti. L’interesse reciproco a un Grande Gioco diplomatico, che usi una tregua temporanea in Libano per arrivare finalmente al cessate il fuoco a Gaza e poi a un accordo di pace a lungo termine fra Israele e Hezbollah, potrebbe tuttavia non bastare.
Netanyahu, dicono i suoi critici, usa la guerra per fini personali: ricostruire un’immagine vincente, rimandare ogni trattativa a dopo le presidenziali Usa e affrontare restando al potere i processi per corruzione che lo attendono. Per i fanatici che vogliono annientare Israele, i missili contro Nasrallah sono altra benzina sulle fiamme che divampano da ormai dodici mesi in Medio Oriente.