I servizi segreti esistono in tutte le democrazie e il loro compito è tanto più efficace quanto più sono invisibili. In Italia, però, Paese di frontiera durante la Guerra Fredda, questa fisiologia s’è trasformata in una patologia. Lo certificano le stragi di destra, da piazza Fontana (1969) in poi, in parte rimaste impunite anche grazie alle coperture garantite dai nostri apparati di sicurezza, soggetti a una «doppia lealtà» (alla Costituzione «formale» antifascista, ma anche a quella «materiale» atlantica e anticomunista).
Questo è il punto di partenza del densissimo libro di Benedetta Tobagi, che non si accontenta dei ragionamenti speculativi poggiati su sintesi altrui, ma ci fa toccare con mano, a contatto diretto con fonti primarie inedite, le modalità e i percorsi – spesso tortuosi – attraverso i quali il «cuore occulto del potere» (sic lo studioso Giacomo Pacini) ha esercitato le proprie funzioni. Da questo affresco emergono almeno tre costanti della storia d’Italia.
Innanzitutto, la sostanziale continuità dei nostri servizi, nonostante le periodiche «riforme» (la più importante è quella del 1977). Una continuità, in primo luogo, di archivi, ossia di immensi patrimoni documentari accumulati nel corso di decenni. Essendo impenetrabili, diventano essi stessi uno «strumento di potere e di controllo», per mezzo di manipolazioni e dispersioni pilotate. Cosicché anche lo storico si trova di fronte a vuoti, silenzi e lacune. I quali tuttavia, a saperli interpretare, «parlano», a volte addirittura «ululano».
Vi è anche una continuità di uomini. Il più evocativo dei tanti personaggi che hanno affollato a lungo il nostro «sottosuolo» è forse Silvano Russomanno. Combattente in un battaglione nazista della Rsi, poi dirigente di spicco all’Ufficio Affari Riservati e tra i principali registi della pista anarchica per piazza Fontana («io ero a Milano quando è morto Pinelli», rivelerà sibillino trent’anni dopo), sarà arrestato nel 1980. Ma riemergerà tre anni più tardi, ormai in libertà, depistando le indagini della magistratura milanese sull’omicidio Calabresi, quando si era raggiunta la certezza della responsabilità di Lotta Continua. Uno dei tanti episodi in cui reazionari e rivoluzionari sembra siano andati a braccetto.
Ci sono state, va aggiunto, anche personalità più cristalline, come il questore Emilio Santillo, che indagò su Licio Gelli e i suoi programmi eversivi sin dalla metà degli anni Settanta; o il generale Ninetto Lugaresi, che cercò di imprimere un nuovo corso al Sismi dopo lo scandalo della loggia P2 (una delle principali ramificazioni del partito occulto). Le reiterate resistenze interne confermano però quanto «l’anelito al rinnovamento» si scontrasse con «difficoltà strutturali».
La seconda costante emersa in queste pagine concerne la ragion di Stato anticomunista che, pur originata dalla Guerra Fredda, ispirò presto «dinamiche di potere squisitamente nazionali». Onde il perpetuarsi di una società del ricatto, nella quale i servizi segreti entravano direttamente nell’agone politico. Paradigmatico il caso di Bettino Craxi. Giunto nel 1983 a Palazzo Chigi come uomo nuovo, si adeguò ben presto alla «tradizione», servendosi costantemente di dossier e documenti di provenienza illegale per tenere a bada i suoi avversari: «Un vero e proprio arsenale dei veleni, che rappresenta la conferma di un sistema».
Infine, l’arte del depistaggio. Benedetta Tobagi dedica illuminanti pagine alle strategie messe in atto dai servizi per ostacolare le indagini della magistratura sulle stragi, dall’elusione delle richieste d’informazione ai faldoni alleggeriti delle carte più compromettenti. Pratiche destinate a perpetuarsi sin quasi ai nostri giorni, in seguito all’omicidio Borsellino. Ma accanto al depistaggio materiale ce n’è anche uno «psicologico». Una vicenda da manuale è la cosiddetta «pista internazionale» per la strage alla stazione di Bologna. Fake news ante litteram che ancor oggi riaffiorano ciclicamente, nonostante le ultime sentenze abbiano ormai snebbiato il quadro, individuando nel defunto Licio Gelli, il capo della P2, uno dei mandanti e finanziatori dell’eccidio, portato a termine da neofascisti di vecchia e nuova generazione.
Tutto ciò sembra prefigurare un’ulteriore costante: l’emersione della verità quando i responsabili sono ormai morti o troppo anziani per espiare la pena (vedi, da ultimo, il «disastro aereo» di Ustica).