«The Order», violenza e rivalsa dell’America profonda
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1 Settembre 2024IN CONCORSO
Nelle corsie arrivano uomini che si sono procurati le ferite da soli per non tornare al fronte. E nel frattempo si diffonde pestilenziale l’epidemia di spagnola
In “Campo di battaglia” il regista si concentra su un ospedale nelle retrovie italiane del primo conflitto mondiale: «Il genere umano non impara nulla dai propri errori»
Venezia
Nel giorno in cui il regista israeliano Amos Gitai si interroga sulle ragioni dei conflitti nel film Why War, sostituendo alle immagini la parola, Gianni Amelio presenta in concorso alla Mostra di Venezia un apologo morale sulla follia della guerra, la sete di potere, la compassione. In Campo di battaglia, in concorso a Venezia e nelle sale con 01 Distribution dal 5 settembre, Amelio ci riporta alla Prima guerra mondiale, quando in Friuli due ufficiali medici, Giulio e Stefano, amici d’infanzia, lavorano nello stesso ospedale militare, dove ogni giorno arrivano dal fronte i feriti più gravi. Molti di loro però si sono procurati da soli le ferite pur di non tornare a combattere. Ma se Stefano è ossessionato da questi autolesionisti, Giulio si mostra invece più comprensivo e tollerante, mentre Anna, amica di entrambi, affronta con grinta un lavoro duro e volontario alla Croce Rossa. Molti malati però si aggravano misteriosamente, qualcuno provoca di proposito delle complicazioni alle ferite dei soldati perché vengano mandati a casa. E poi si diffonde una strana infezione che uccide più delle armi nemiche e colpisce anche i civili. Sarà chiamata la “spagnola” e mieterà 50 milioni di vittime in tutto il mondo, di cui almeno 600mila in Italia.
Questa storia di guerra e pandemia raccontata
da Amelio, che nei panni dei tre protagonisti ha voluto Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini, si ispira liberamente a La sfida di Carlo Patriarca e ci riconduce inevitabilmente al presente. « Il genere umano purtroppo non impara nulla dai propri errori, dalla guerre e dalla morte, perché il potere brama il potere. Chi arriva al potere ne vuole ancora di più e così nascono le guerre, anche quelle future. La guerra è tristemente il fatto più attuale che esista. Trovo questo film profondamente doloroso, ma anche assetato di cambiamento. La battuta chiave del film, “qui non muore nessuno”, contraddice quello che va in scena, è una utopia, la mia speranza di narratore di fronte all’ingiustizia della morte che colpisce i poveri, i fragili. Migliaia di ragazzi sono morti in trincea, migliaia di bambini sono stati uccisi dalla febbre». « I protagonisti – aggiunge il co-sceneggiatore Alberto Taraglio, sono nati nel romanzo per essere esemplari di un’idea, e noi li abbiamo trasformati in personaggi in carne e ossa, aggiungendone degli altri e poi immaginando l’ospedale, tenendo presente che è li che si sarebbe svolta la nostra guerra e non al fonte. Una guerra che all’apice della sua violenza vede l’arrivo di un’altra crudele battaglia, quella contro una pandemia, che ha fatto altrettanti morti tra i civili».
«Da quando faccio questo lavoro – commenta poi Borghi – non ho mai conosciuto nessuno come Gianni Amelio, la benzina di tutto il processo creativo del film. Abbiamo cominciato a parlare del progetto un anno e mezzo prima di andare sul set, e ogni tanto ci vedevamo un paio d’ore per parlarne, al bar o nella sua cucina. È stato un processo lungo e meraviglioso, sempre sfidante e i personaggi sono frutto di una scoperta continua. Il film affronta molte tematiche, ma ce n’è una in particolare a cui penso spesso nella mia vita, quello della relatività di ciò che è giusto e sbagliato. Il mio personaggio è il buono del film, ma quando il film finisce non sai se è davvero così, perché la capacità del cinema è quella di costruire un’empatia immediata. Giulio ha un metodo poco ortodosso di andare contro la guerra: ha ragione a prendere certe decisioni? Una risposta nel film non c’è. Giulio combatte contro la follia della guerra facendo però qualcosa che io, Alessandro, non
avrei mai fatto».
Il personaggio di Anna, secondo il regista, è il più consapevole. « In un’epoca in cui la guerra era giustificata e si considerava un vigliacco chi si procurava da solo delle ferite per non andare al fronte – ideologia che con l’andare del tempo ha prodotto più male che bene perché da “la guerra è un dovere” a “la guerra è inevitabile” il passo è breve Anna condivide l’atteggiamento intransigente di Stefano, ritenendo che per gli autolesionisti non possa esserci perdono. Poi quando scopre che denunciandone uno provoca una morte legalizzata, capisce che non è una società giusta quella che ammazza più dei nemici». E aggiunge: « Non amo i film di guerra che trasformano la morte in spettacolo.
Campo di battaglia non è un film di guerra ma sulla guerra, senza immagini di conflitti alle quale siamo ormai drammaticamente assuefatti».