Come talvolta accade, il dramma scolora in farsa: stavolta addirittura nel giro di poche ore. Il caso De Angelis era nato come dramma perché toccava le responsabilità della strage più orribile, Bologna 1980.
Evocava quasi un viaggio nel tempo, nei meandri più oscuri della storia del dopoguerra. Richiamava interrogativi ancora aperti, al di là della verità giudiziaria.
Le frasi che hanno fatto esplodere il caso contenevano qualcosa di definitivo, erano dirette a colpire le coscienze. «Ho la certezza che Mambro, Fioravanti e Ciavardini sono innocenti. Tutti lo sanno e tutti mentono». E ancora: «Ho detto quello che penso, sono pronto a finire sul rogo come Giordano Bruno».
Più che esprimere un’opinione, invocando la libertà di pensiero che a tutti deve essere garantita, De Angelis annunciava un fatto, una diversa verità circa i colpevoli della strage. Addirittura metteva a confronto se stesso con il martire di Campo de’ Fiori, l’uomo che morì per aprire le porte al mondo nuovo contro la superstizione medioevale.
Ecco la drammaticità della situazione, che andava aldilà del personaggio, della sua vicenda politica, delle ovvie polemiche e anche della richiesta di dimissioni dall’incarico alla regione Lazio, subito avanzata dal centrosinistra: qualcuno all’improvviso affermava “con certezza” che tutti hanno mentito intorno alla strage della stazione e continuano a farlo. Come non dare ragione a Luciano Violante che ha suggerito l’unico sbocco razionale: se De Angelis ha le prove di quello che dice, si affretti da un magistrato e lo metta al corrente di tutto.
Ma qui finisce il dramma e comincia qualcosa che assomiglia alla farsa. Giordano Bruno può proseguire nel suo riposo eterno, nessuno vuole sul serio emularlo. Nel giro di poche ore e dopo che la premier Meloni ha riversato la sua furia sul presidente del Lazio, Rocca, il quale l’ha travasata pari pari sul malcapitato, arriva il repentino cambio di scenario. Nessuna certezza, nessuna intenzione di morire per non abiurare: De Angelis si scusa e afferma di aver voluto soltanto esprimere i suoi dubbi sulle inchieste e le vicende processuali. In sostanza, i messaggi sui “social” erano l’equivalente di chiacchiere da bar. Tutto derubricato in poche ore. Perché i dubbi sono più che legittimi, anche dopo le sentenze. E del resto i 43 anni trascorsi dalla strage sono costellati da una catena di interrogativi condivisi da un ampio arco di personalità della cultura e della politica. Ben rappresentati gli esponenti della sinistra, altrettanto quelli del mondo radicale e liberale, a cominciare da Marco Pannella.
A questo punto non è più nemmeno interessante capire se il collaboratore di Rocca resterà al suo posto o sarà indotto a dimettersi. La vicenda ha già insegnato tutto quello che doveva. In primo luogo ha confermato che Giorgia Meloni è circondata, in posizioni più o meno rilevanti, da una serie di figure che la riconducono idealmente alle sue origini di destra estrema. Lo si sapeva e chi l’ha votata, e oggi continua a sostenerla, non sembra curarsene. Per cui le polemiche sulle zona d’ombra di questa destra, di cui la premier tiene comunque conto, servono più che altro a rinforzare l’identità della sinistra.
Ma non pare che spostino voti: ogni segmento partitico rimane all’interno dei suoi confini e infatti i sondaggi fotografano una sostanziale stabilità. In secondo luogo, i condizionamenti che provengono dal passato neofascista non sono invincibili.
Proprio il caso De Angelis dimostra che, se si vuole, certi personaggi possono facilmente essere ridimensionati. Per cui è lecito domandarsi cosa aspetta la premier a recidere con decisione certi legami politici-sentimentali da cui ricava solo guai. E un freno alla sua ambizione di essere il leader del partito conservatore europeo.