Sta esplodendo il Pd, e la sinistra non ha niente da mettersi. Quotidianamente, ormai, dal principale partito d’opposizione partono segnali d’insofferenza, legati all’incertezza nello schieramento sui principali temi, alla mancanza di iniziativa autonoma, al continuo richiamo a programmi e procedure senza che il peso del partito si faccia sentire, a una predicazione generica sulla tutela dei diritti a cui non seguono i fatti, mentre resta sguarnito il fronte sociale: come se la sinistra avesse spostato l’asse della sua storia, mantenendo la sua natura, ma cambiando silenziosamente la sua cultura.
Poi, quando Elly Schlein decide di partecipare alla manifestazione organizzata dai Cinque Stelle sui temi del salario minimo e della lotta alla precarietà come condizione esistenziale di una generazione, perché ritiene giusto costruire un fronte di opposizione che incalzi il governo, quel fronte si spezza proprio in casa dei democratici. “Siamo a una distanza siderale”, ha detto sabato il leader dei riformisti Guerini davanti al giudizio sulla guerra in Ucraina di Moni Ovadia, con l’inversione della colpa tra Mosca e Washington. E ieri si è dimesso dall’assemblea nazionale del Pd Alessio D’Amato, l’ex assessore alla Sanità che dopo aver condotto in prima linea la battaglia contro il Covid era stato candidato dal partito alla presidenza della regione Lazio: “Le parole d’ordine di Grillo sui passamontagna e le brigate di cittadinanza sono inaccettabili per qualsiasi persona riformista e di sinistra”, spiega D’Amato, prima di lanciare contro Schlein l’accusa più pesante: “Le manifestazioni unitarie si fanno su piattaforme comuni. Partecipare così rivela uno spirito gregario e minoritario che non crea un’alternativa di governo, possibile solo con un impianto riformista contro il sovranismo e il populismo”.
Recuperata dai magazzini della sinistra, rispunta così la “linea politica”. In sostanza il Pd accusa se stesso di non averla, e dunque di essere stordito davanti ad ogni evenienza e confuso in qualsiasi circostanza, fino a cadere nell’auto-trappola di una manifestazione di cui condivideva la tematica e gli obiettivi, mentre sapeva di non poterne evidentemente controllare il contesto, il linguaggio e i confini. Investito dalle polemiche, anche strumentali, della sua minoranza, il Pd ha ribadito che “la linea sulla guerra in Ucraina non cambia”. Ma oggettivamente viene ormai da chiedersi: quale linea? La scelta di procedere con sanzioni a Mosca e aiuti militari a Kiev è stata mantenuta dopo le primarie vinte da Schlein, ma è anche stata continuamente logorata, devitalizzata e sminuita dai balbettii contraddittori, con il partito in difficoltà per la concorrenza dei grillini sul tema sensibile della pace, agitato da Conte come una banderilla nei fianchi del Pd. Serve una scelta netta e trasparente, che riaffermi il valore dell’impegno per la pace, e la convinzione che nessuno è più a favore di una pace giusta di chi si oppone nei fatti all’aggressione che ha scatenato la guerra. Uscendo dall’ipocrisia di chi cerca di salvarsi l’anima condannando il momento dell’invasione, per poi mascherare con la parola pace la falsificazione morale delle responsabilità dei contendenti, con l’accusa a Kiev di difendersi troppo a lungo per la nostra realpolitik, e con troppa convinzione rispetto ai nostri interessi.
Il ritardo e l’incertezza su questo tema cruciale rivelain realtà un dubbio identitario: il Pd sa oggi cos’è? Sa qual è la ragione sociale della sinistra nel nuovo secolo, dove sono i suoi valori di riferimento e gli interessi legittimi da difendere? Onnivoro nella sua fragilità, il partito ha inglobato la novità portata dalla segretaria, incassando una dote di consenso e di attesa fiduciosa nei sondaggi. Ma ingigantendo ogni scricchiolio col ricatto della scissione e della fuga, ha impedito come al solito che si creasse una nuova autorità politica, in grado di parlare per tutto il partito. “Non a mio nome” è invece lo slogan d’interdizione alzato dalle minoranze di fronte alla prime titubanze della nuova leader, come se davanti all’estremismo di questa destra il primo compito della sinistra fosse quello di indebolire la propria voce. Qui viene alla luce il limite delle primarie, che spettacolarizzano la contesa per la leadership mettendola in mano al popolo, il quale premia ormai di regola chi critica il quartier generale: con la controindicazione che è in quel quartier generale che dal giorno dopo deve muoversi la leaderhip eletta, costretta a scontare la contraddizione della doppia platea da cui riceve legittimazione e a cui deve rendere conto.
Questo è il contesto, non facile, in cui deve muoversi la sinistra. Ma tutto il resto tocca a Elly Schlein e al suo gruppo dirigente, se decide di manifestarsi. La supremazia di un leader nasce dal peso della tradizione, dall’impeto di una rivoluzione, dalla fede in una trasfigurazione carismatica, o al contrario dalla razionalità di una secolarizzazione del potere, in un contratto di rappresentanza tra il Capo e la sua base.
La segretaria scelga la via per conquistare — dopo il titolo — anche l’autorità della sinistra italiana, senza rimanere a metà strada. La sua vittoria è troppo recente per vanificarla nell’eterna contesa tra riformisti e massimalisti, anche perché non si vedono in giro né i moderni Bordiga né i nuovi Turati: magari qualche futurista senza estro e fuori stagione, attirato dal rumore di fondo della contesa, che anticipa il caos.