LA MORTE DI ADOLFO KAMINSKY
Il più grande creatore di documenti contraffatti del ’900 se ne è andato a 97 anni. Figlio di ebrei russi, parigino d’adozione, fu un eroe della Resistenza
PARIGI
La sua vita non è ancora diventata un film o una serie tv ma prima o poi qualcuno ci penserà. Intanto si può rileggere il libro Adolfo Kaminsky. Una vita da falsario , pubblicato in italiano da Angelo Colla editore nel 2011, per ripercorrere l’eroismo del fotografo che partecipò alla Resistenza francese, morto ieri all’età di 97 anni. È stata la figlia, Sarah Kaminsky, che alla straordinaria e avventurosa vita del padre aveva dedicato una biografia, a dare l’annuncio della scomparsa di uno dei più grandi esperti nella falsificazione dei documenti di identità del Novecento. Figlio di ebrei russi emigrati in Argentina, Kaminsky seguì la sua famiglia a Parigi nel 1932, dove suo padre lavorava in una tintoria. «Ho imparato con lui le tecniche per smacchiare i vestiti, scoprendo di avere un certo talento per la chimica » ricordava. Arrestato con la famiglia dai nazisti il 22 ottobre 1943 e condotto nel carcere di Caen, fu poi trasferito nel campo di internamento di Drancy, vicino a Parigi, da cui partivano i treni per Auschwitz. Rilasciato nel gennaio 1944 grazie all’intervento del consolato argentino, entrò in contatto con i partigiani della Resistenza francese. Un responsabile della rete clandestina ebraica gli chiese: «Sai togliere le macchie d’inchiostro?». Rispose di sì. L’uomo aggiunse: «E le macchie indelebili? ». Niente è indelebile, azzardò il giovane che stava per compiere diciotto anni. Fu così che Kaminsky venne reclutato nel laboratorio clandestino della rue des Saint-Pères, nel quartiere latino. Con lo pseudonimo di Julien Keller, divenne l’esperto più noto per recuperare documenti falsi nella capitale. «Facevo tutto in modo artigianale. Avevo fabbricato un macchinario per stampare i falsi passaporti, sono riuscito a costruire una centrifuga con una ruota di bicicletta. Lavoravo spesso a casa e per giustificare con i vicini l’odore forte dei prodotti chimici raccontavo a tutti di essere pittore».
Soprannominato durante la seconda guerra mondiale “il falsario di Parigi”, i suoi instancabili sforzi per falsificare certificati di matrimonio, di battesimo, tessere alimentari, consentirono a innumerevoli ebrei di sfuggire ai rastrellamenti. Non ha mai fatto un calcolo preciso di quante vite ha salvato. «Nei periodi più duri — raccontava — ho fabbricato fino a trenta nuove identità ogni ora. Sapevo che un piccolo errore poteva essere fatale. A volte, mi davo schiaffi in faccia per non dormire. Sapevo che la mia era una corsa contro il tempo, o forse sarebbe più giusto dire contro la morte». Nonostante il suo coraggio, riconosciuto solo in tempi recenti, continuava a portarsi dentro il senso di colpa di non aver fatto abbastanza. «Una sera — ricordava a proposito della sua attività durante l’Occupazione — sono andato a trovare una vedova che viveva in rue Oberkampf per portarle dei nuovi documenti ma lei li ha rifiutati. Mi ha risposto che era francese, non aveva nulla da rimproverarsi. Ho provato in ogni modo a convincerla. Per mandarmi via ha persino minacciato di avvertire la polizia. Qualche giorno dopo ho saputo che era stata trasferita a Drancy». Del campo da dove transitavano gli ebrei francesi prima di essere deportati Kaminsky aveva conservato immagini che popolavano i suoi incubi. «Come quella donna di 104 anni portata in barella per andare a “lavorare”, così dicevano allora, in Germania. Un altro ricordo è quello di una coppia di anziani. La moglie era in lacrime accanto al marito che era stato completamente rasato. Era un modo per togliergli la sua dignità. È in memoria di quell’uomo che porto la barba lunga ».
Il laboratorio parigino di Adolfo Kaminsky ha continuato a funzionare anche nel dopoguerra. Bussavano combattenti anticolonialisti, oppositori contro le dittature, gruppi politici di vario tipo. «Falsario per il benealtrui», diceva sorridendo il diretto interessato, considerandosi semplicemente «al servizio della libertà». Molti dei suoi amici sono emigrati in Palestina per la creazione dello stato di Israele. Lui decise di non andare. «Ho esitato a lungo, ma anche se sono ebreo non sono mai stato sionista ». Dalla Ville Lumière ha continuato a regalare false identità per disertori americani che volevano scappare dal Vietnam, vittime delle dittature in America Latina, oppositori dei regimi di Franco, Salazar o dei colonnelli in Grecia. «Durante un viaggio in Algeria sono rimasto scioccato dalla discriminazione nei confronti di quelli che allora venivano chiamati“musulmani dell’Algeria”. E così ho aiutato gli indipendentisti del Fln». Con l’Algeria aveva un rapporto particolare, era il paese dove aveva conosciuto sua moglie Leïla, la madre di Sarah.
«Quando durante gli anni Settanta sono stato contattato da alcuni gruppi di estrema sinistra che praticavano la lotta armata, ho rifiutato». Aveva incontrato anche l’editore Giangiacomo Feltrinelli. «Ho collaborato anche con lui ma poi le nostre strade si sono separate» aveva raccontato tre anni fa quando ci aveva ricevuto nella sua casa parigina dove fino a qualche tempo fa conservava una camera oscura. Osservava con una punta di amarezza il mondo contemporaneo: «Oggi chiunque s’improvvisa falsario, il mondo è pieno di fake, ma molti lo fanno solo per soldi». Anche se non praticava più l’attività di falsario dagli anni Settanta, s’immaginava di regalare documenti aisans papiers .
«C’è anche questo clima di odio che torna» commentava. «Il mondo sembra impazzito. Io ormai sono vecchio, ma ci sarebbe ancora tanto da fare». Pur avendo aderito a cause in apparenza contraddittorie, è rimasto fedele alle sue convinzioni umanitarie, alla sua aspirazione a costruire un mondo di giustizia e di libertà, come ha spiegato la figlia Sarah nel libro. Kaminsky ha sempre rifiutato di farsi pagare per falsificare i documenti, guadagnandosi da vivere come fotografo. Molti dei suoi scatti nelle strade della Ville Lumière erano stati esposti nel 2019 al Museo d’arte e di storia del giudaismo del Marais. «Ho vissuto a lungo nascosto, andare a caccia di volti e paesaggi è stato un modo di sentirmi meno solo».