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12 Novembre 2023di Arturo Carlo Quintavalle
Quella di Achille Funi (1890-1972) è davvero una storia complessa che muove, nel secondo decennio del secolo, dall’adesione al Futurismo, dal dialogo con Cézanne e gli Impressionisti e, negli anni Venti, quando nasce il movimento Novecento, dal rapporto con Picasso, Derain, Braque, un rapporto che ben presto però sarà caratterizzato da precise scelte politiche. Analizzare le forme dunque non basta in un’Italia che legge sempre più le opere d’arte attraverso la riflessione crociana, secondo la quale l’arte è intuizione pura — diversa dall’economia, dalla morale, dalla filosofia; di fronte a tutto questo ecco la rivoluzione del fascismo che stabilirà un nesso preciso fra creazione artistica e politica, fatto cruciale nel momento in cui Mussolini prende il potere.
Seguire questo percorso, seguire la nuova funzione che il regime assegna all’arte, fa capire la trasformazione di un promettente futurista, appunto Funi — ora in mostra a Ferrara — in un narratore diverso, consapevole della funzione dell’arte per la formazione del consenso.
A questo punto conviene dare la parola ai protagonisti e, prima di tutto, a Umberto Boccioni che nel 1916, su «Gli avvenimenti», dopo avere ricordato la mostra (1914) dei giovani artisti milanesi del gruppo di Nuove tendenze nella quale Funi «era, fra tutti, il pittore più solido», così delinea il percorso dell’artista : «Il suo realismo studia Cézanne con amore… tutta una serie di disegni a matita… lo dimostra. Nel suo studio ho visto Uomo che scende dal tram, Ciclista (Velocità), Due fanciulle+caseggiati+strada. In questi quadri la sintesi schematica che gli viene da Cézanne e dai postimpressionisti si libera dall’immobilità». Alla mostra di Ferrara tutta una serie di opere di Funi conferma l’analisi di Boccioni. Penso a Strada in movimento (1911-1912), Autoritratto futurista (1913), Uomo che scende dal tram (1914), Motociclista (1914-1921).
Attorno al 1917 le scelte di Funi cambiano, pesa forse su di lui la ricerca di Giorgio de Chirico mentre ormai appare dominante una lingua diversa, una più solida costruzione delle forme quasi bloccate nella loro architettata fissità; penso a opere come Ritratto di Margherita Sarfatti (1917) o ancora Margherita Sarfatti con la figlia Fiammetta (1919-1920) o Eva (1919) o Ragazza dormiente (1920) dove avverti un dialogo preciso con Picasso e Derain, dunque con il Cubismo sintetico ma senza dimenticare Cézanne (per esempio in come in Paesaggio ligure, del 1920-1922).
Progressivamente i volumi si consolidano, come in Autoritratto con la brocca blu (1920), oppure in Ragazzo con le mele (1920), o diventano scavo nelle espressioni come in Una persona e due età (1924) o in Saffo (1924), dove il dialogo con Picasso è evidente; penso ancora a dipinti dello spagnolo come Tre donne alla fontana (La sorgente) del 1921 al MoMA di New York.
Nel 1971 Funi spiega così le origini del movimento Novecento: «Noi venivamo dal Futurismo ma il Futurismo era morto… era una pittura inventata e qualche volta senza una ragione… il suo ruolo d’avanguardia europea (insieme a quello del Cubismo) era stato giocato. Si imponeva ora, secondo noi, una riproposta della forma e dell’ordine… Perciò nel 1920, con Sironi, Dudreville e Russolo firmai il manifesto Contro tutti i ritorni in pittura. Da lì, nei miei ricordi, comincia Novecento».
Margherita Sarfatti, la guida del movimento, nel 1930 scrive nella Storia della pittura moderna: «Disse allora qualcuno, a Milano, nel 1920, in quel crocchio di amici: il nostro secolo sento che vedrà ancora il primato della pittura italiana. Sento che ancora si dirà nel mondo e nel tempo: Novecento italiano… La prima Esposizione del Novecento italiano, inaugurata nel 1926 in Milano con un memorabile discorso agli artisti di Benito Mussolini, segna una data e una tappa decisiva di questa rinascita».
Ecco un passo del discorso di Mussolini per l’inaugurazione della mostra nel 1926 sulla funzione che Novecento dovrà avere nella società italiana: «I novecentisti sono artisti che non si rifiutano, non rifiutano e non debbono rifiutare alcuna esperienza e alcun tentativo: quasi tutti hanno infatti vissuta l’esperienza futurista, ma intendono di essere e di rappresentare qualche cosa per se stessi; un di più, una conclusione ed un inizio, creatori, non rifacitori o copiatori: un momento artistico, insomma, che può essere abbastanza lungo e importante da lasciare durevole traccia nella storia dell’arte italiana di questo secolo».
Nelle opere di Funi in questo periodo, sempre di qualità assai alta, scopri nuove suggestioni: il dialogo con la pittura del Rinascimento, come la raffaellesca Lettura domenicale (1926) o ancora con la pittura pompeiana come in Venere (1926) o in Bagnante (1928) dove Funi cerca una sintesi fra tradizione pittorica romana e rivoluzione classica picassiana. Le scelte di Funi si vedono in Publio Orazio uccide la sorella (1930-1932): al centro una bianca, antica Venere; a sinistra uno dei Dioscuri riletto attraverso le pitture della Villa dei Misteri a Pompei; in basso le evocazioni di Picasso anni Venti — tutto composto come in una pala di sapore veneziano.
Ma Mussolini, attento politico, non intende fissare Novecento come unico modello dell’arte fascista e nel 1929 scrive una lettera di estrema durezza alla Sarfatti. In seguito gli artisti di Novecento prederanno strade diverse: non Mario Sironi. E non Achille Funi che, nella Sala dell’Arengo al Palazzo Municipale di Ferrara, in un grande affresco (1935-1936) proverà a unire tradizione neoclassica, raffinate citazioni dell’antico, evocazione del Raffaello delle Stanze vaticane e di Giulio Romano di Palazzo Te con la citazione della veduta di Roma della Camera degli Sposi di Mantegna a Mantova. Un’impresa imponente, quasi il testamento di un grande artista.
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