Antonello Guerrera
Con i suoi progetti ha ridisegnato il pianeta. E continua a farlo adesso A 88 anni, il Lord dell’architettura, celebrato da una mostra al Centre Pompidou di Parigi racconta l’avventura della sua vita
Ogni cosa è illuminata. Deve esserlo. « Un malato in ospedale in una stanza con tanta luce naturale ha molte più possibilità di sopravvivere rispetto a un paziente senza finestre » . Parola del monumento dell’architettura mondiale, Norman Foster, che ci riceve nei suoi sinuosi e splendenti studi londinesi di “ Foster + Partners” sul Tamigi, tra l’Albert Bridge e il Battersea Park, poco lontano dalla powerhouse dei Pink Floyd. L’archistar inglese di Stockport, umbratile periferia di Manchester dove è cresciuto tra mattoncini rossi, bullismo e povertà, ha appena compiuto 88 anni, dopo aver superato a inizio secolo un infarto e un cancro all’intestino. Allora i medici che gli diedero qualche settimana di vita. Invece, la leggenda di “ Sir” e ora “ Lord” Norman Foster continua. Non solo nel palazzo a “ cetriolino” Gherkin della City, l’ex municipio sulla Southbank, il quartier generale di Bloomberg, la paradisiaca “ Great Court” nell’atrio principale del British Museum, l’aeroporto Stansted o le “ vele” dello Stadio di Wembley, per citare alcune sue “ cattedrali” solo a Londra. Appassionato di auto d’epoca, pilota amatoriale dopo la gioventù nella Raf e accanito ciclista tra Inghilterra, Stati Uniti, Svizzera e Spagna dove divide la sua vita con la terza moglie iberica Elena Ochoa e cinque figli, Lord Foster è in splendida forma. E, dolcevita nero, pantaloni sabbia, calze cachi ed eleganti mocassini maggese, aRobinson ripercorre la sua eccezionale carriera, racconta i progetti futuri in nome della sostenibilità e dell’ambiente, e ci svela i segreti del suo successo, disegnando davanti a noi con la matita sui fogli A4 dalla cartellina castana che porta sempre con sé dal 1975.
A proposito. Immancabile, sino al 7 agosto 2023, la sua maestosa retrospettiva al Centre Pompidou di Parigi che l’ha onorato con l’ultimo piano sinora concesso solo a colossi come Duchamp e Dalí: centinaia di schizzi e bozze dei suoi capolavori, i modelli di tutto il suo universo disseminato in sei continenti come il palazzo Hsbc a Hong Kong, il campus Apple Park in California alimentato al 100% da energie rinnovabili, l’altissimo Viadotto di Millau in Francia, il campus Luigi Einaudi a Torino, la stazione della Tav a Firenze se mai si farà. E poi l’ossessione per “ la città verticale” e i grattacieli, la mobilità cittadina, le collaborazioni con Nasa, Centre for Advanced Nuclear Energy System del Mit di Boston e l’Agenzia Spaziale Europea per sganciare gli edifici dalle fonti di energia cittadine e puntare tutto sul nucleare e rinnovabili. E poi leEssential Homes, presentate all’ultima Biennale di Architettura di Venezia, ossia un prototipo di casa economicae sostenibile per i rifugiati che supera il concetto di tende utilizzando una tela di cemento e una struttura a griglia che offrono sicurezza e durabilità fino a 20 anni. Fino alla ricostruzione della città ucraina di Kharkiv, dove è stato lo scorso dicembre: « Stiamo lavorando con un economista di Oxford e un urbanista di Harvard, abbiamo posto 60 mila questionari ai cittadini per capire quale città desiderano per migliorare i palazzi di epoca sovietica e ricostruire Kharkiv in nome di sostenibilità, prosperità e cultura » .
Poi certo, persino Foster, guru e demiurgo del modernismo di alluminio, vetro e acciaio, ha dovuto ingoiare mezzi fallimenti come la nuova sede della Bbc a Londra affondatagli da Margaret Thatcher o il luccicante ponte Millennium Bridge, che collega la cattedrale di San Paolo alla Tate Modern: all’inaugurazione nel 2000 tremava così tanto che dovettero chiuderlo e risistemarlo per molti mesi. Proprio il palazzo Hsbc a Hong Kong nel 1985 lo salvò dalla bancarotta. Ma c’est la vie. Foster, premio Pritzker, Stirling e Principessa delle Asturie tra gli altri, è un pilastro dell’architettura high-tech — detestata dal tradizionalista re Carlo III — insieme a Renzo Piano, Richard Rogers, Michael Hopkins, Minoru Yamasaki e Santiago Calatrava. Ma è stato anche il protagonista di un romanzo di formazione dickensiana: figlio unico di papà operaio, madre panettiera, gli studi per l’architettura conquistati con sacrifici, irrefrenabile ambizione e una borsa di studio a Yale dove conobbe il compagno di viaggio dell’intera carriera, Richard Rogers, con il quale iniziò a lavorare tra tanti modelli e prime influenze: Buckminster Fuller, Lloyd-Wright, Le Corbusier, Léger, fino a Sol LeWitt, Boccioni, Brancusi. Una passione nata nei sobborghi e dalle locomotive di Manchester, ma soprattutto dalla lettura del fumetto di fantascienza Dan Dare, pilota del futuro sulla rivista Eagle. Che immaginava un avvenire di macchine volanti ed edifici iper-tecnologici: «Quelle fantasie giovanili sono la mia realtà oggi».
Norman Foster, quando risale il corso di tutta la sua carriera nella retrospettiva al Pompidou, a che cosa pensa?
«Non la considero una retrospettiva. È una “futurospettiva”. Perché io e i miei colleghi lavoriamo sempre con una visione del futuro. Sin dal 1960, quando nacquero i movimenti ambientalisti contemporanei, l’era delle minacce pesticide, il manifesto antesignanoPrimavera silenziosa di Rachel Carson e le missioni dell’Apollo che mostrarono quanto sottili fossero gli strati dell’atmosfera, l’architettura si è basata sul concetto di sostenibilità. Lo stesso è oggi. L’architettura deve essere salutare per l’anima, lo spirito e il pianeta».