Graduate Workers at Stanford University Are Organizing a Union
16 Aprile 2023Bill Viola Qualcosa di familiare
16 Aprile 2023
di Gianluigi Colin
Città di Castello, frazione di Morra, 1976: il fuoco copre il volto dell’artista, intento a sciogliere il materiale con il quale realizza la Grande Plastica, una delle sue Combustioni. La concentrazione è al massimo, sembra sentirlo, l’odore acre della materia che si infiamma come fosse il frutto di un improvviso fulmine. Ma qui il fulmine ha un nome. Ed è quello di un gigante dell’arte: Alberto Burri. La plastica brucia con violenza e poi, con la stessa rapidità in cui la fiamma è apparsa, eccola dissolversi, adagiandosi lentamente in un gioco di stratificazioni. E allora, le mani nude di Burri modellano, plasmano, danno forma a un’idea forte, di tensione perenne. Rivoluzionaria.
Venezia, 1987: Emilio Vedova, in un involontario mimetismo, è quasi invisibile, completamente coperto di colore dopo aver concluso uno dei suoi Tondi. L’impeto di Vedova, il suo ardore creativo, il suo carattere totalizzante è racchiuso in quest’immagine simulacro: non è più un pittore, lui stesso s’è fatto «opera». Il colore è sull’intero corpo, sulle mani, sulla fronte. Anche gli occhi non sono risparmiati, protetti solo dagli occhiali. Ma dopo il lavoro, stremato da un’energia vorace, arriva la pausa. E Vedova allarga le braccia con un sorriso composto, quasi trattenuto dalla lunga barba bianca che lo fa assomigliare al suo amato Tintoretto.
Castello di Prinzendorf, Austria, 2012: è luglio, caldo afoso. Hermann Nitsch, con una tunica bianca, quasi un monaco benedettino, dopo aver disposto una ventina di tele sul pavimento con un gesto semplice lancia una sostanza verde sulla superficie. Non si capisce se siano pigmenti colorati, fiele, uova o ancora sangue, lo stesso con cui ha coperto le altre tele e che conferisce a questo luogo un’evocazione raccapricciante, acuita da un odore nauseante, insopportabile.
Tre momenti, tre frammenti di altrettanti racconti fotografici (sì, vere narrazioni per immagini) di Aurelio Amendola, ormai celebrato fotografo al confine tra il ritratto delle più importanti personalità dell’arte e l’interpretazione delle opere di grandi autori del passato come Michelangelo, Canova, Bernini. Ora, in occasione dell’anniversario della nascita di Alberto Burri, negli ex Essiccatoi del tabacco si celebrano i legami umani e professionali del maestro di Città di Castello. Nasce proprio da queste relazioni e dalla sensibilità di Bruno Corà, presidente della Fondazione a Burri intitolata, una mostra sorprendente, che rivela una nuova prospettiva intorno al «gesto» e all’«azione» di tre grandi personaggi come Burri, appunto, Vedova e Nitsch.
La mostra, anche per chi conosce bene il lavoro di Amendola, rappresenta qualcosa di nuovo. Con intelligenza e perizia curatoriale, Corà ha scelto molte foto mai viste e ha voluto accostare negli spazi degli Essiccatoi anche alcune opere originali degli artisti ritratti. L’evento è dunque un corpo a corpo ricco anche di sorprese: le celebri immagini di Burri mentre realizza una Combustione, ad esempio, sono installate come una sequenza cinematografica. Qui Amendola riesce a costruire una fondamentale testimonianza del lavoro di Burri e al tempo stesso dà forma a una riflessione concreta sul senso del fare una fotografia quando è necessaria una relazione di fiducia tra chi scatta e il soggetto dello sguardo. Ed è proprio qui il punto chiave di tutto il lavoro di Amendola: la sua straordinaria umiltà, mescolata a un’empatia tutta pistoiese, leggera, vitale, profonda.
Amendola ricorda quei momenti con voce appassionata: «Avevo 35 anni ed ero davvero intimorito. Nel suo studio era come stare in chiesa. Intorno a noi solo silenzio. Poi, con gli occhi e un cenno del capo, Burri mi fa capire che si parte: prende in mano una piccola bombola a gas e comincia a bruciare la plastica. Mi rendo subito conto di essere unico testimone di qualcosa di sacrale. Ma non c’era nulla di frenetico, tutto appariva semplice, naturale. Sembrava che il tempo si fosse fermato di fronte a quelle fiamme che divampavano, alle mani che modellavano. E Burri capiva benissimo anche le mie esigenze. E mi aiutava: al cambio di pellicola, pazientemente mi aspettava. Queste foto sono state fatte in cinque giorni. Ho scattato solo una decina di rullini. Insomma, un centinaio di scatti o poco più. Ogni tanto veniva a trovarlo qualche amico. Un bicchiere di vino e qualche battuta davanti a un piatto di salame. La sera si parlava di calcio». Aurelio Amendola continua: “Nei giorni a seguire era curiosissimo. Quando vide le foto stampate mi apparve felice. E di fronte all’immagine con la grande fiamma che gli copre il volto mi disse che era la foto più bella che gli avessero mai fatto».
Nasceva così, proprio grazie a quelle foto, un rapporto intenso di amicizia durato sino alla fine. Ma Burri sapeva anche essere duro: «Dovevo fare una mostra alle Stelline a Milano e, orgoglioso, porto le bozze del catalogo a Burri. Lui guarda la copertina con la mia foto di Warhol e mi uccide con lo sguardo. Non voglio guardare questo libro. Poi mi dice stizzito: “Ma tu sei un fotografo americano o un fotografo italiano?”. Non l’aveva detto perché voleva che la copertina fosse con un suo ritratto, ma per una difesa dell’arte italiana di fronte allo strapotere di quella americana. Questo mi voleva dire. Io ci rimasi così male che a spese mie cambiai la copertina e pubblicai la foto di de Chirico. È stata una grande lezione di vita. E aveva ragione».
Una cosa è certa: fotografare un artista nel suo atelier mentre è al lavoro è molto diverso da qualsiasi fotografia in posa. In fondo, significa entrare in un legame privato con l’uomo, oltre che con l’artista; significa indagare la sfera più intima, quella più privata; significa raccontare quell’enigmatica e insondabile dimensione che avvolge l’alchimia dell’arte. Ed è proprio grazie alla personalità solare di Amendola («un’attitudine che può definirsi di “complicità empatica”», secondo Corà) che le tante difficoltà e diffidenze sono sempre superate.
Diffidenze che anche Emilio Vedova, noto per il suo caratteraccio, aveva. Ma per il fotografo pistoiese ogni ostacolo appare superabile: certo, la sua storia professionale lo ha sempre aiutato, ma soprattutto ha contato la qualità assoluta del suo lavoro, mista a una simpatia e generosità davvero rare nel mondo dell’arte contemporanea. Così, eccoci nello studio di Vedova. E qui scopriamo un universo nascosto, eppure davanti agli occhi di tutti. Per un momento non guardiamo l’artista, ma gli angoli del suo studio: scopriremo parole su pannelli di legno, su fogli di carta lasciati qua e là, nella grande e caotica confusione dello spazio. Parole come istanze, invocazioni, moniti, speranze, grida, proclami. Di ordine etico o di coscienza civile. Parole come “Tutto è frammento”, “Vivere da vivi”, “Abbasso le caselle”, “Deriva”, “Dalla parte dei naufraghi” (siamo nel 1987). E poi, schizzi, disegni segni sulle tracce di possibili pennellate, quasi ci fosse la volontà razionale di controllare il gesto della creazione, sapendo perfettamente che non sarebbe stato mai stato possibile. Fotografia come epifania, dunque.
Con Nitsch, maestro dell’Azionismo viennese, tutto è diverso: «In studio un odore nauseante. Per fortuna lui si assentava ogni tanto e chiedevo agli assistenti di aprire la finestra. Era molto silenzioso e concentrato. Disponeva le tele a terra, passava e gettava secchiate di sangue. Facemmo grandi mangiate ma il suo vino, anche se non è cortese dirlo, era cattivissimo. La sera andavamo al ristorante e speravo di bere qualcosa di buono. E invece no, il cameriere per piaggeria ci dava anche lì il vino prodotto da Nitsch. Un disastro». Amendola sorride divertito. «Era bello vederlo lavorare, ma non parlava affatto. Ma meno si parlava meglio era. Poi ogni tanto si alzava e lasciava lì le scarpe intrise di colore, schizzi, di materia organica». Nasce da questa assenza una delle foto più interessanti, in bianco e nero, profondamente metafisica e che chiude l’intera mostra: una sedia vuota, attorniata da una serie di tele dipinte. Amendola sembra citare i versi di Attilio Bertolucci: «Assenza,/ più acuta presenza». Così, le scarpe ci raccontano tanto di Nitsch. E, con quella sedia vuota, viviamo non solo il suo ricordo, ma anche quello di tanti compagni di viaggio (di Amendola e nostri) incontrati sulle dure, scoscese e prodigiose strade dell’arte.