01 Maggio 2023 | di Laura Carrer
Una delle cose più normali che ci viene insegnata sin da quando siamo piccoli è possedere. “Mio” e “tuo” sono aggettivi o pronomi possessivi per definire, ad esempio, cosa possiamo portare a casa con noi o meno, in un contesto di relazione con gli altri. La proprietà è un concetto fondante della nostra società e determina in modo inequivocabile il rapporto che abbiamo con chi ne fa parte. Le piattaforme digitali sempre più presenti nelle nostre vite di consumatori hanno superato questo concetto. Seppur in maniera molto controversa, vanno infatti esattamente nella direzione opposta: spingono verso la condivisione e l’uso dei loro prodotti, disponibili in ogni momento e luogo, al fine di mettere tutti al centro di un nuovo modo di consumare (più che di vivere). Lo vediamo con i contenuti musicali, che Spotify ha tolto dai cd che si riponevano con cura nelle custodie sopra gli scaffali.
Da un certo punto di vista, anche utilizzare una macchina per spostarsi in città o per le vacanze senza possederla è al passo con i tempi: in un sistema economico capitalistico che ha portato ineluttabilmente all’attuale crisi climatica è preferibile utilizzare mezzi sostenibili, che permettono di risparmiare soldi e incentivare indirettamente una pratica di società differente. Il concetto di condivisione è nobile, ma funziona se nessuno degli attori coinvolti guadagna più di altri.
La giungla del food delivery
#LifeIsAGame è la serie che ha indagato l’oligopolio del food delivery per raccontare l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali. Il nome della serie deriva da un ragionamento in merito alla vita lavorativa, e di riflesso anche personale, che i rider si trovano a sperimentare: definita dagli ordini che impartisce un’applicazione attraverso un processo continuo di “gamificazione” del lavoro, sempre più impersonale, fatto di bonus monetari, percorsi più veloci e in cui a guadagnare sono solo le piattaforme che hanno un infinito ricambio di lavoratori disposti a inforcare la bici e mettersi a competere. Consegnare pasti non è un gioco, ma da fuori può sembrarlo. Le sue regole sono fissate da algoritmi opachi e precarietà sul lavoro. Ciò che #LifeIsAGame ha esplicitato è il gioco invasivo che l’economia delle piattaforme del delivery continua a sperimentare, grazie a regole di sfruttamento mascherate da nuove, in contesti come il mercato del lavoro, la città, il settore della ristorazione.
Nell’ambito delle consegne a domicilio, la storia delle piattaforme nasce nei primi anni 2000 in Danimarca e si spinge fino all’Italia undici anni dopo. Si chiamava JustEat e faceva perlopiù da collante tra ristoratori e clienti che ordinavano pizze online tramite fattorini in bicicletta. Ricordo che un amico all’università lavorava negli uffici di questa piattaforma, e che il primo interrogativo che io e un gruppo curioso di compagni gli avevamo posto era: chi mai ordinerebbe del cibo a casa? Evidentemente molti di più di quelli che pensavamo.
Il cambiamento nel consumo di cibo, almeno nelle città, è stato radicale in poco più di dieci anni. Da quel momento in poi, JustEat ha acquisito una serie di competitor tra Spagna, Regno Unito, Canada e anche Italia, definendo la cifra di una strategia orientata all’aggregazione. Altre piattaforme hanno preso la stessa direzione assorbendo sempre più aziende e rendendo un mercato economico importante il lavoro del fattorino della pizza, fino a poco prima considerata solo un’economia informale. A separare il consumatore dal cibo che ordina c’è però una filiera determinata nella sua interezza dai distributori, per l’appunto l’oligopolio delle piattaforme, che spinge all’estremo limite, e come mai prima, il sistema capitalistico.
L’anello debole della catena
I protagonisti della filiera sono tre: il consumatore finale, che dalla sua app ordina cibo da casa e viene profilato nelle sue minime scelte e abitudini di consumo e al quale le varie piattaforme lasciano anche l’onere di decidere quanto valga la prestazione del fattorino. I ristoratori, piegati alla logica della “fabbrica di cibo” che prevede la creazione in serie di piatti pronti e adatti al trasporto in città, e che snatura la loro stessa attività commerciale. E gli ultimi, non solo nell’elenco ma anche di fatto, i fattorini. L’anello debole della catena, composta perlopiù da migranti spesso senza documenti in tasca nè diritti minimi sul lavoro e alla mercè di tutti.
Le piattaforme del delivery li hanno infatti relegati a capro espiatorio: sono vittime dei ristoratori, che spesso li lasciano in mezzo alla strada sotto la pioggia o sotto il sole perché la loro presenza dentro il ristorante disturberebbe i clienti; sono vittime dei consumatori, che li additano come motivo del ritardo nel portare il cibo all’uscio della loro porta e li puniscono di conseguenza con una valutazione negativa; e sono vittime anche della città che attraversano quotidianamente. Il lavoro per le piattaforme della gig economy, e quindi anche del food delivery, è precario per natura: anche se per la maggior parte dei lavoratori è l’unico lavoro, il guadagno che ne traggono non è assimilabile nemmeno a un ipotetico salario minimo, le ore lavorate sono esponenzialmente più alte che per ogni altro impiego, e l’unica costante che accompagna i lavoratori quotidianamente è un mix tra fragilità e insicurezza.
Per approfondire
Life is a game
Attraverso l’estrazione di dati e informazioni il capitalismo delle piattaforme governa un’economia finora considerata informale. L’oligopolio della gig economy si mostra attraverso decisioni algoritmiche e precarietà
Per le donne, poi, tutto peggiora. L’economia delle piattaforme ha portato indietro la lancetta dei diritti basilari sul lavoro all’inizio del Novecento: nonostante sia un lavoro considerato “innovativo”, tecnologico e moderno, che apparentemente si può svolgere quando si vuole durante la giornata e in autonomia, è invece ancor più degli altri un impiego che non fa che nutrirsi e reiterare dinamiche tipiche della struttura di una società patriarcale. Non permette un vero e proprio bilanciamento tra lavoro fuori casa e lavoro di cura, non fornisce neanche l’ombra di un sostentamento economico fisso, non garantisce sicurezza fisica né psicologica. In sostanza non è strumento di liberazione per le donne, al contrario di quello che racconta la retorica del lavoro autonomo.
Inghiottiti anche i ristoratori
Pensare che gli utili delle piattaforme del food delivery, tra l’altro scarsi, derivino dall’intermediazione tra ristoratori e clienti è ormai ipocrita. La nuova idea di impresa che propugnano è governata dall’estrazione di dati e informazioni grezze dal valore non solo strettamente commerciale ma anche organizzativo e politico, estrazione silente che viene compiuta su tutti gli attori della filiera.
Come detto, seppur in modo diverso, tutti i protagonisti della filiera contribuiscono indirettamente a tenerla in piedi e su questo il lockdown imposto dall’emergenza Covid-19 ha gettato una luce ormai difficile da spegnere. Non è sbagliato infatti dire che le piattaforme dettano le regole di un gioco al quale però poi non partecipano.
Nel Paese della cultura del cibo, i pesanti costi da sostenere per l’apertura e la gestione di un’attività nella ristorazione hanno portato le piattaforme a ritagliarsi il ruolo di “risolutrici”, introducendo un nuovo modello di cucina a basse spese iniziali che parimenti significa bassa qualità del cibo prodotto in serie. Fenomeni come le cloud e le ghost kitchen sono i più evidenti passaggi dall’intermediazione tra consumatore e ristorante a un’idea di cucina 3.0. Niente più sala né camerieri, niente più tovaglie a quadretti né sguardi per chiedere il conto. Solo il menù rimane vario, e il cliente lo può ordinare da un’app: va dal primo al dolce, attraversando più ristoranti che per sostenere le spese si sono riuniti sotto un unico brand virtuale.
In queste cucine che si vedono in zone della città ad alta richiesta di delivery un cuoco per ogni pietanza, in modo veloce e ordinato, impacchetta la sua parte di pranzo o cena e la aggiunge a quella prodotta dagli altri. Una piadina o un poké, ma anche una pasta alla carbonara e un cannolo siciliano. Associato ad un numero il pacchetto confezionato è poi dato nelle mani di un rider attraverso una finestrella, alla quale si affaccia senza sapere troppo chi c’è dentro e cosa stia facendo. Non conoscere cosa fa chi viene prima e chi dopo è un’altra regola del gioco del delivery.
Città visibile, città invisibile
Quando la pandemia da Covid-19 ha obbligato la chiusura delle città, una parte del processo di digitalizzazione che si sta imponendo già in altri campi nel contesto urbano è emersa prepotentemente in superficie. La città è diventata sempre di più un bene pubblico assoggettato a scopi privati. Di fatto, per i rider la città è il luogo di lavoro quotidiano senza formalmente esserlo. L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme di delivery, e che regola il lavoro dei rider, non solo è segreto e inaccessibile, ma sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi e nuovi luoghi. Una città scollata dalla città “reale”, alla quale i lavoratori oppongono quotidianamente una resistenza silenziosa fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti. I rider si ritrovano ad aspettare gli ordini di consegna del cibo ai margini delle strade, sulle scalinate delle piazze, nei parchi deserti che per un processo lento di abbandono dello spazio pubblico da tempo non accolgono più i residenti.
Anche per Luca, rider italiano, il luogo più importante della città è il parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana: «Un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario». Come lui anche altri, soprattutto migranti, si trovano ad accontentarsi di spazi urbani pubblici non adatti alle loro esigenze e spesso insicuri. Una coppia di rider sudamericani che lavora in stazione Centrale, da dove parte per il turno tutte le sere, è l’emblema di questo senso di insicurezza e porta inevitabilmente con sé le storture di questo lavoro.
Magazzino fantasma
La trasformazione dello spazio urbano da parte delle piattaforme di delivery, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare per uno scopo squisitamente privato, ha percorso però anche strade più tradizionali. Per permettere una consegna veloce della spesa a domicilio, la “promessa dei dieci minuti”, è stato necessario aprire decine di magazzini in città. Arrivare al cliente fornendo i prodotti acquistati a pochi minuti dall’ordine non è solo questione di quanto veloce corre il rider. Dipende inevitabilmente dalla quantità di magazzini ai quali può recarsi sfrecciando in velocità per ritirare la merce, luoghi prima riservati ad attività commerciali ben diverse. Negozi falliti, attività chiuse dopo la pandemia, vuoti urbani sono stati comprati dalle piattaforme di delivery per stoccare merce come di solito si fa nelle aree fuori dal centro.
In questi magazzini dalle vetrine mascherate e non accessibili al pubblico si riassume il visibile/invisibile delle piattaforme, perfettamente definite da una dicotomia che ha molte ripercussioni sul tessuto urbano. Una su tutte quella di svuotare spazi che avevano una valenza comunitaria o erano attività commerciali di quartiere, per renderli nuovamente vuoti e visibili unicamente online. All’interno ci sono infatti migliaia di prodotti ma nessuno può entrare a comprarli, solo ordinarli tramite app. Dieci minuti per consegnare potrebbe tutto sommato sembrare un fatto positivo per i fattorini: più ordini per tutti. La realtà è che le piattaforme di delivery non svelano come vengono ripartiti gli ordini dal proprio algoritmo, e nemmeno quanto di umano possa esserci nel controllarlo. I rider sono costretti a migliorare continuamente le loro prestazioni, o almeno cercare di farlo, e questo avviene di nuovo aumentando l’unico parametro sul quale hanno il controllo: la velocità. In giro non si vedono più bici normali ma quasi esclusivamente elettriche, con batterie acchittate alla bell’e meglio con il nastro adesivo.
Se non hai diritti, difendili
Nonostante le grandi problematiche che affrontano quotidianamente, dall’insicurezza sul lavoro alla mancanza quasi totale di tutele lavorative, i sindacati europei fanno molta fatica a sindacalizzare i rider. Questo, insieme al continuo finanziamento alla ricerca e sviluppo delle tecnologie che utilizzano, permette alle piattaforme di delivery di continuare incontrastate a crescere in barba anche a sanzioni di milioni di euro per la mancata adozione di contratti di lavoro subordinati.
L’Ispettorato del Lavoro spagnolo ha comminato una sanzione di 79 milioni di euro a Glovo, che ha sede proprio in Spagna, ma la compagnia ha fatto spallucce. Le strutture elefantiache dei sindacati tradizionali hanno il loro peso in questa perdita di potere nella contrattazione con le piattaforme. I collettivi e i movimenti dal basso legati alle lotte per i diritti dei lavoratori giocano invece un ruolo inedito: cercano i fattorini, ci parlano e li aiutano nelle questioni più basilari del loro lavoro quotidiano, li sottraggono alle maglie di un destino già scritto e a volte riescono anche nell’arduo compito di renderli coscienti della loro condizione. I collettivi fanno anche da ponte perché le loro lotte sono poi inglobate dai sindacati maggioritari.
Nonostante ciò, questo lavoro politico non risulta ancora sufficiente a rendere le piattaforme responsabili dello sfruttamento che operano davanti alla collettività. Un settore come quello della ristorazione, in Italia già ampiamente basato sulla precarietà e sullo sfruttamento degli addetti ai lavori, è stata la chiave di volta per le piattaforme di delivery: lì sono state lasciate indisturbate nell’ignorare deliberatamente le più basilari tutele sul lavoro, processo coadiuvato dalla tecnologia che esse stesse producono come più importante e vero prodotto della loro attività commerciale. Tecnologie abilitanti basate su infrastrutture che permettono a milioni di persone di connettersi l’una con l’altra, supportate da device che si interpongono tra il prodotto, chi lo vende e chi lo compra.
La narrazione del lavoro autonomo come liberatorio poi, di matrice anglosassone e fondata sul guadagno del singolo rider per ogni ordine come base da integrare con mance o bonus di ogni sorta per raggiungere un salario accettabile, è ancora cavallo di battaglia delle aziende di delivery. In fin dei conti, il modello che propongono è moralmente corrotto: né la crescita dei loro profitti, né la quotazione in borsa o le multe milionarie che vengono comminate a queste aziende cambieranno materialmente in alcun modo il lavoro dei fattorini. Lo spiraglio, forse, va trovato cambiando punto di vista perché le regole delle piattaforme di delivery non sono le nostre. L’alternativa, per noi, è giocare totalmente ad un altro gioco.